Il dramma si riassume letteralmente in venti parole: una donna è morta travolta da un convoglio della metropolitana dopo essere stata spinta sui binari da uno squilibrato senzatetto. Ma ci sono volute molte più parole, riflessioni ed emozioni per onorare la memoria di Michelle Alyssa Go durante una veglia che si è tenuta a Times Square alla quale ha partecipato non soltanto il neo-eletto sindaco Eric Adams, ma anche vari esponenti dell’amministrazione di New York.
Fino a sabato mattina Michelle Alyssa Go era una newyorkese qualsiasi che abitava nel quartiere dell’Upper West Side e lavorava per la Deloitte, un gigante delle consulenze aziendali. D’improvviso da un momento all’altro questa americana di origini etniche cinesi era diventata vittima di un gesto tanto folle quanto insensato. E di questa realtà ne ha parlato il sindaco Adams rivolgendosi a una folla di alcune centinaia di persone raccolte a pochi passi dalla stazione della metropolitana dove Michelle era morta travolta da un convoglio in arrivo. Molte avevano in mano candele accesse con cui onorare la memoria della giovane vittima.
“Dobbiamo respingere la reazione spontanea di avere paura di girare per le nostre strade e nella nostra metropolitana,” ha detto Adams facendo riferimento al fatto che all’inizio degli anni ’80 era un capitano del Dipartimento della Polizia di New York che lavorava proprio nella zona intorno a Times Square. “Dobbiamo respingere la reazione spontanea di puntare il dito contro coloro che si sono persi nel sistema non avendo ricevuto il trattamento mentale a cui dovrebbero avere diritto.”
Il Primo Cittadino di New York — con indosso una giacca a vento nera con l’insegna del FDNY — ha proseguito parlando della necessità di implementare con massima urgenza un piano di intervento e prevenzione che rientri in una visione più ampia di che tipo di città New York aspira ad essere. “Le mie squadre di ordine pubblico lavoreranno insieme a professionisti della salute mentale per identificare coloro che hanno bisogno immediatamente di servizi,” ha detto Adams aggiungendo che parte del piano di intervento é anche fare sì che New York smetta di essere una città segregata e isolata. “Dobbiamo sì aiutare i malati mentali e contenere la criminalità, ma ci sono anche cose che possiamo fare tutti quotidianamente. Per esempio possiamo incominciare a salutare l’un l’altro e interagire perché è venuto il momento che ci sentiamo di appartenere a una sola città e a una sola razza — la razza umana”.

Dopo Adams ha preso la parola il procuratore generale di New York. “Dobbiamo sentirci solidali non solo con la comunità asiatica ma anche con la comunità afro-americana, quella ispanica, quella ebraica”, ha detto Letitia James citando un verso della Bibbia che fa riferimento a coloro che vanno a testa alta, vanno verso il cammino della pace. “Dobbiamo riconoscere la paura e la rabbia e il dolore della comunità asiatica. Siamo qui non solo a onorare la memoria di Michelle, ma anche a parlare dello stato di una città sotto enorme stress.”
Mentre la James parlava, molti degli enormi pannelli luminosi di Times Square avevano smesso di diffondere immagini pubblicitarie e proiettavano invece il volto sorridente di Michelle Alissya Go. Laureata presso la prestigiosa Stern School of Business che è parte della New York University, lavorava alla Deloitte, gigante delle consulenze aziendali. Ma il particolare che personalmente mi colpisce di più è che abitava sulla 72sima Strada nel quartiere dell’Upper West Side. È lì dove abito io — all’angolo della 72sima Strada nell’Upper West Side.
È un dettaglio che mi permette di chiudere gli occhi e immaginarmi come sia arrivata nel punto dove ha visto la sua fine. Quattro passi a piedi per giungere alla stazione della metropolitana su Broadway e la Settantaduesima Street, giù per le scale ad attendere la metropolitana della linea 2 o 3, quella express che in meno di cinque minuti porta allo snodo di Times Square. Da lì riesco a immaginarmi la Go che sale le scale, gira a destra e percorre il corridoio che collega i treni della linea rossa con quelli della linea gialla. Giù per le scale, ancora giù sulla destra e lì Michelle ha atteso l’arrivo di un convoglio. Quello che non si aspettava è che il braccio violento di uno squilibrato senzatetto la spingesse sotto un treno.
Racconto questi particolari perché ogni evento — dai più sereni ai più tragici — ci colpisce in modo differente quando ci riusciamo a immedesimare del tutto con i protagonisti. Non faccio fatica a immedesimarmi con ogni passo, ogni tratto, ogni gesto che probabilmente ha fatto la Go nel corso di quella ventina di minuti prima di morire travolta da un treno in corsa.

Inizialmente si era detto che Michelle stava attendendo la metropolitana con altre due donne. Non è stato così. C’era però un’altra donna non lontana da lei che pochissimo prima era stata approcciata dal medesimo squilibrato e aveva temuto di venire buttata sui binari. Lo ha rivelato agli agenti del NYPD quando ormai per Michelle Go non c’era più niente da fare.
“Si era avvicinato a lei a distanza eccessivamente ravvicinata e lei si era allarmata”, ha affermato Jason Wilcox, vicecapo della polizia. “Lei aveva tentato di allontanarsi ma lui aveva continuato a tampinarla, al punto che lei aveva avuto la sensazione che stesse per spingerla sotto a un treno. Si era allontanata e non appena si era girata aveva visto l’uomo che spingeva un’altra vittima sotto al convoglio in arrivo”.
La potenziale vittima è un personaggio con cui non riesco a immedesimarmi. Non sono in grado di immaginarmi che cosa potrei provare se fossi stato così vicino dall’avere fatto la fine della Go. Non riesco a pensare ai sentimenti che proverei se avessi visto la morte così da vicino. Non sono in grado di processare quello che si prova quando si tocca con mano il destino e basta un istante perché tutto finisca.
Neppure con Simon Martial riesco a immedesimarmi. Non importa quanti particolari emergano sull’autore dell’orribile gesto, non riesco comunque a entrare nella mente malata di una persona che per nessun motivo fa fare a una sconosciuta una fine così tragica. Malato di mente sì, ma solo fino a un certo punto. Perché il sessantunenne Martial era riuscito a dileguarsi, aveva preso la metropolitana e tredici minuti dopo era sceso alla fermata di Canal Street. Era andato al commissariato della Transit Police e lì aveva ammesso tranquillamente il gesto che aveva appena commesso.

“Ho appena spinto una donna sotto un treno”, aveva detto a un poliziotto, come ha rivelato il capo della polizia di New York, Keechant Sewell, nel corso di una conferenza stampa insieme al sindaco Eric Adams. Trasferito al commissariato di polizia di Midtown per un interrogatorio Martial ha “giustificato” il suo attacco affermando di essere “God”, cioè Dio. “Sì, perché sono Dio. Sì, sono stato io a farlo. Sono Dio e ho il potere di farlo”. Ma un attimo dopo ha aggiunto un particolare. “Mi aveva rubato la mia fottuta giacca. È per quello che l’ho fatto”.
Come possiamo reagire noi abitanti di New York? Come possiamo attutire il colpo di una tragedia con cui ci possiamo immedesimare così da vicino? Cosa possiamo fare per sentirci più sicuri in una città che adoriamo ma che progressivamente ci fa sentire in costante pericolo? Certo, possiamo smettere di usare la metropolitana benché sia una strumento essenziale nella vita della nostra metropoli. Possiamo stare più guardinghi e cercare di essere più allerta su chi ci passa vicino. Possiamo osservare basilari regole di sicurezza come quella di non oltrepassare la linea gialla sulla banchina o di posizionarci in modo da non perdere facilmente l’equilibrio. Ma bastano questi piccoli accorgimenti per sentirci più sicuri? Non bastano perché il problema di fondo è che da anni New York ha perso il controllo della crescente realtà della malattia mentale.
Basta qualche statistica per capire quanto sia grave la situazione. Nell’area metropolitana di New York vivono 19,5 milioni di persone. Di queste, 673mila sono adulti affetti da gravi disturbi mentali. A questi si aggiungono 204mila minorenni anch’essi affetti da disturbi psichici. Ma i numeri si fanno ancora più inquietanti quando aggiungiamo la problematica della malattia mentale combinata con l’uso di stupefacenti. Allora arriviamo a 1,4 milioni di persone. Le statistiche rivelano che di queste persone solamente il 50 per cento è in cura. Altro dato: circa 15mila persone in carcere a New York sono affette da disturbi mentali. Quando a questa realtà aggiungiamo quella dei senzatetto la situazione diventa insostenibile.
Ci sono più di 43mila persone senza fissa dimora a New York. Molte vivono in strada, altre hanno come punto di riferimento i rifugi per senzatetto. Ma altre ancora usano i vagoni caldi della metropolitana per sopravvivere soprattutto nei mesi freddi. Vivono lí, mangiano lì, dormono lí, fanno i loro bisogno lí. Ed è anche lì dove la loro mente malata degenera nella follia.
Non basta dunque più polizia per evitare tragedia come quella di Michelle Go. Non bastano linee gialle. Non basta massima vigilanza personale. Serve con estrema urgenza un piano che contenga la crescente realtà di gente che non si può permettere di avere un tetto sopra la testa. Perché dalla strada alla follia il passo è breve.