Rompere quel soffitto di cristallo che tiene le donne lontane dalle posizioni di potere è ancora molto difficile, ma almeno il “soffitto di bronzo” è sfondato. Central Park avrà la sua prima statua di donne vere, realmente esistite, in occasione dei 100 anni della ratifica del voto femminile negli Stati Uniti. Sinora nel grande parco di Manhattan si incontravano solo figure femminile emerse dal mondo delle fiabe, come Mamma Oca e Alice nel paese delle meraviglie che insieme ai suoi amici ci guarda festosa nei pressi di un laghetto. A Central Park ci sono altre 29 statue tutte di uomini.

Il 26 agosto con una cerimonia che sarà possibile seguire on line in streaming dalle 8 del mattino ora di New York (le 14:00 in Italia), sarà scoperta la statua di tre suffragette icone delle battaglie per l’emancipazione, le due newyorchesi bianche Elizabeth Cady Staton e Susan B Anthony e l’ex schiava nera Sojourner Truth. Un traguardo raggiunto dopo anni di battaglie e di marce, di tira e molla sulla pelle delle donne, che sino a quel fatidico 1920 non erano state ritenute idonee a partecipare alla vita politica del paese.
Sembra incredibile se guardiamo a quanta strada da allora le donne hanno compiuto raggiungendo negli Stati Uniti molti posti di responsabilità istituzionale, a partire dalla speaker della Camera Nancy Pelosi, terza carica dello Stato.
Le donne nere hanno dovuto però aspettare altri decenni prima di poter andare alle urne, perché i parlamenti statali soprattutto del sud dove vigeva la segregazione non approvarono il 19 esimo emendamento. Il Mississippi lo ratificò solo nel 1984.
Diventa così ancor più significativa la presenza di Kamala Harris nel ticket democratico alla presidenza se si pensa alla fatica che le donne nere si devono ancora sobbarcare in base anche alla sfumatura di colore della loro pelle. Eppure non si ricorda mai, quando si parla di 19 emendamento, che tante donne si opposero a quel diritto di votare e di contare come racconta Susan Goodier nel libro No votes for women. La National Association Opposed to Woman Suffrage pubblicò anche un impressionante pamphlet nel quale si elencarono le ragioni secondo le quali le donne non potevano mettere a rischio l’unità della loro famiglia, il loro ruolo di moglie e madre. Le donne non devono votare “Perché significa competizione con gli uomini e non cooperazione-scrissero; perché l’80% delle donne eligibili a votare sono sposate e possono solo raddoppiare il voto del marito o annullarlo; perché in alcuni stati ci sarebbero più donne che uomini a votare e questo metterebbe the government under petticoat rule”.

Alcune attiviste anti-voto arrivarono a dire che se le donne avessero iniziato a fare il lavoro degli uomini sarebbero diventate più brutte, meno desiderabili, meno femminili e non sarebbero state in grado di prendersi cura dei figli e della casa se si fossero fatte coinvolgere con la politica. Come spiega bene sul Washington Post Samantha Schmidt le attiviste anti-voto provenivano dagli stessi ambienti sociali delle suffragette, erano parte dell’elite bianca della east coast erano sposate o collaboravano con politici e giuristi. Erano figure influenti e filantrope. Oggi chiameremmo le anti-sufragette fuoco amico, ma le donne maschiliste non sono una novità. Sono sempre esistite ed esistono tuttora.
Ma c’è una curiosità raccontata dalla Schmidt: quando l’emendamento fu ratificato dallo stato di New York sul muro dell’ufficio della National anti suffrage association furono affissi due cartelli. In uno era scritto “La politica è una brutta cosa per le donne, le donne sono una brutta cosa per la politica”. Nell’altro si invitava ad andare a registrarsi per poter votare. E cosi questa storia dai contorni incredibili ha anche un lieto fine. Alice Robertson, vicepresidente dell’associazione contro il voto femminile divenne la prima donna dell’Okhlahoma eletta al Congresso, dopo il passaggio del 19 esimo emendamento. Repubblicana ebbe la meglio su un uomo, ma purtroppo la si ricorda per il suo voto contro gli aiuti economici alla maternità e alle cure dei bambini perché -spiegò- erano un’intrusione non richiesta del governo nei diritti personali. A dimostrazione che non basta essere donna per sostenere politiche a favore delle donne