Difficile abituarsi al Thanksgiving. Perlomeno, per chi non è americano. Una ricorrenza che cade a circa un mese dal Natale, la festa, quest’ultima, forse più sentita in Italia da chi crede e (ormai) da chi non crede. Più sentita, certamente, del 2 giugno, festa della Repubblica. Che, intendiamoci, non si può definire la versione italiana del Ringraziamento, le cui origini sono comunque religiose e cristiane. Ma il Thanksgiving, allo stesso tempo, ha in sé quella patina di patriottismo che negli Usa non manca mai. Si ricorda, infatti, un lontano giorno del 1621, quando, nella città di Plymouth, nel Massachusetts, i padri pellegrini si riunirono per la prima volta per ringraziare il Signore del buon raccolto. Più di 200 anni dopo, nel 1863, nel bel mezzo della guerra di secessione, fu Abramo Lincoln a ufficializzare la celebrazione del giorno del Ringraziamento, che da quel momento divenne una festa annuale e perse gradualmente il suo contenuto cristiano.
Difficile, per gli italiani che vivono a New York, abituarsi all’idea che non si sentiranno rivolgere mai, o raramente, un “Merry Christmas” – in America si preferisce l’“Happy Holidays”, più politicamente corretto e inclusivo per tutte le confessioni religiose –, ma si sentiranno certamente augurare tanti festosi, entusiasti “Happy Thanksgiving!”. Che è un po’ come dire, per chi americano non è e tantomeno patriottico, “Happy Turkey!”: perché ammettiamolo, chi non associa il Ringraziamento a quel grasso, grosso tacchino ricolmo di tutto quello che qui chiamano stuffing, improbabilissimo ripieno a base di purè di patate, noci e bacon, riso, salse, pane, funghi, zucca e chi più ne ha più ne metta?
Insomma: come affrontano gli italiani a New York la grande sfida del tacchino? In generale, si sa, l’italiano trapiantato all’estero (per brevi o lunghi periodi che sia) è decisamente geloso della propria assoluta superiorità culturale in termini culinari. Certo: non che a New York sia difficile trovare ristoranti italiani, o supermercati che vendono prodotti italiani, o pizze napoletane o cannoli siciliani (o giù di lì). Ma, diciamocelo: a parte la vertiginosa differenza di prezzi da un lato all’altro dell’Oceano, la mozzarella di bufala con i pomodorini di San Marzano e l’origano di Pantelleria, con buona pace dei gustosissimi burger newyorchesi, qui ce li sogniamo la notte. E proprio in virtù di tale indiscussa superiorità, orgogliosamente rivendicata da ogni italiano che si rispetti, verrebbe da pensare che, a noi italici, il tacchino non possa proprio andare giù, per ragioni, più ancora che culturali, biologiche, anzi, ontologiche. Riusciamo a mangiarcelo davvero, noi italiani, quel volatile ricolmo di ogni genere e tipo di pietanze, che tra loro stanno come i cavoli a merenda?
E in effetti, tra le mie italianissime fonti – con cui trascorrerò il Ringraziamento e condivido, per l’occasione, il classico gruppo su Whatsapp in cui si definisce il menù e ci si spartisce mansioni e pietanze –, non fatico a trovare i critici. C’è chi, il tacchino, lo definisce inappetibile “stoppa”, e chi propone addirittura una ben più salutare e leggera alternativa vegan a base di quinoa burger. Che, per carità, non è esattamente un cibo italiano per eccellenza, visto che la quinoa è entrata in questi anni a pieno titolo nelle cucine nostrane più per il boom del salutismo che per tradizione locale. Tra i più scettici, Riccardo, cresciuto nelle campagne del Garda, ma che bazzica da diversi anni per New York City. “Il tacchino è stopposo, è come pollo secco senza sugo”, mi spiega. E mi invita (un’esperienza che richiede una certa dose di masochismo) a infilarmi in uno dei tanti supermercati oggi presi d’assalto nella Grande Mela per osservare le file interminabili alle casse di persone che reggono tacchini giganti, di quelli che in campagna da lui, di certo, non li avresti mai potuti incrociare. Il dubbio – lecito – è che quei poveri volatili siano stati almeno un po’ “dopati”, ma forse è meglio non chiederselo. Perché poi, tra qualche ora, tutto quel ben di Dio finirà dritto dritto nel nostro stomaco.
Per non parlare, mi fa poi notare, della temerarietà che ci vuole a cucinarlo: 8-9 ore trascorse ai fornelli, che al confronto la parmigiana di melanzane della nonna – quella vera, fritta – è una passeggiata. Intendiamoci: non che noi italiani ci lasciamo spaventare dalle full immersion culinarie. Ma un conto – c’è da dirlo – è maneggiare melanzane, pasta fatta in casa e passata di pomodoro, un altro è vedersela con un tacchino gigante. Non tutti, però, sono d’accordo con Riccardo (che pure, alla fine, ammette che “senza tacchino, non è più Ringraziamento”). Rosella, a New York dal 1980, è italianissima, ma non rinuncia a celebrare il Thanksgiving come si deve: il tocco italiano, con lasagne e salumi, non può mancare, ma non deve annebbiare la tradizione locale. Veri protagonisti sono tacchino, granturco, patate dolci, apple pie e pumpkin pie. Anche per Lana, un ventennio speso in America come illustre neuroscienziata, la tradizione è importante: “Mi piace molto onorare questa festa americana”, mi racconta. “Specialmente perché la si trascorre con famiglia e amici, magari anche in campagna”. Quanto all’aspetto culinario, confessa una tendenza più multiculturale che prettamente americana: “Io per anni ho preparato la canard à l’orange”, l’anatra all’arancia, con contorni rigorosamente italiani e stuffing a stelle e strisce: immancabile il cranberry orange chutney. Per finire, la pecan pie au cointreau, torta a base di pasta frolla, glassa di sciroppo di mais (o melassa) e noci pecan, tipica della cucina del Sud degli Stati Uniti e tradizionalissima al Ringraziamento.
Grazia, addirittura, il Thanksgiving l’ha “esportato”: “Dopo 7 anni a New York, sono tornata a Roma e con un cospicuo numero di amici abbiamo continuato la tradizione del Ringraziamento, che festeggiavamo rigorosamente ogni anno, con un tacchino di 7-8 kg proveniente dell’Umbria”, ricorda. Una preparazione rigorosamente americana (nonostante le origini umbre della materia prima), “con l’aggiunta di pasta e qualche altra italianità”. Ma, chiosa, il suo Ringraziamento è molto “tradizionale, con tanto di discorso e stuffing americano”. Federica, ricercatrice italiana da 7 anni in America, tra New York e Chicago, taglia corto così: “Mi piace onorare la tradizione, ma il mio stomaco rimane più per il ‘team lasagna’”. Come darle torto.
Curiosi di sapere com’è andato a finire il dibattito sul menù nel suddetto gruppo Whatsapp (che, come potrete immaginare, per un pomeriggio intero non ha mai smesso di trillare un secondo)? Nonostante qualche italianissimo scetticismo, ha infine vinto la tradizione: il tacchino ci sarà, con tanto di stuffing tipico, cranberry orange chutney, pumpkin pie e puré di patate. Ma neppure mancherà a tavola l’irrinunciabile tocco italiano: perché, insieme al tacchino, ci saranno lasagne, torte salate, salamini, affettati, formaggi, pomodoro e mozzarella e vino rigorosamente italiano! Tra i dolci, panettone, tiramisù e salame di cioccolato.
Quanto a me, ancora non sono titolata per scegliere tra il “Turkey” o il “No-Turkey Team”. Perché, lo confesso: questo sarà il mio primissimo Ringraziamento americano, e fino ad oggi gli unici (tristi) approcci con il tacchino che ho avuto sono avvenuti con quello affettato nelle buste del reparto salumeria, scelto come alternativa un po’ più salutare – almeno ci ho provato – al classico prosciutto per farcire i panini. Ma una cosa è certa: ormai mi sono appassionata al dibattito. E non vedo l’ora di vivermi – sempre, rigorosamente e orgogliosamente da italiana, questo sì – un’esperienza che più americana di così non si può. Che poi, dalle lasagne, si fa sempre in tempo a tornare.