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September 25, 2017
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Antonino e Stefano Saetta: il dono nascosto del martirio, con una nota di Falcone

Uccisi sulla strada Agrigento-Caltanissetta il 25 settembre 1988, il giudice Antonino Saetta e il figlio Stefano furono vittime di Cosa Nostra

Fabio CammalleribyFabio Cammalleri
Antonino e Stefano Saetta: il dono nascosto del martirio, con una nota di Falcone

Il giudice Antonio Saetta (a sinistra) e il figlio Stefano (Foto tratta dal sito: stampacritica.org)

Time: 4 mins read

C’era un subisso di persone. Così accalcate, che a fatica si riusciva a levare lo sguardo verso la facciata; scuola del Basile, avevamo sentito fin dall’infanzia: alta, chiara di marmo e imponente, che pareva solo intenta a mantenersi eretta, incalzata da un sagrato appena accennato ai suoi piedi. In realtà, più un aiuola di lastroni lisci, in tre passi declinante su una scalinata già più distesa che, brevemente solenne, si fermava di fronte al vecchio cancello di un giardino gentilizio in abbandono. Ma questo era solo un ricordo dei giorni normali. Quel pomeriggio, solo teste, e un varco che di tanto in tanto si formava fra spinte e un murmure sommesso, fino al portale di destra. Di quando in quando, vi passavano uomini, donne, autorità nazionali: tutto il CSM, mai successo prima, né dopo; ministri; parlamentari, locali, e quelli noti dalla tv; e autorità insulari: regionali, provinciali, comunali.

Quando arrivò il Presidente Cossiga, appena lo intravidi, un qualche inveire, uno strano frullío, e poi rapidissimi suoni metallici, quasi accenni: erano monetine. Retorica a gesti, per il furore; viatico di quella a parole, per il dolore, che poco dopo avrebbe risuonato dall’ambone. Dentro la Chiesa Madre, fra un altro subisso di persone, immaginavo, una donna, che conoscevamo: Luigia Pantano, “la” farmacia. Ma era un’immagine forzosa: cercata più che sorta spontaneamente; solo per tentare un ricongiungimento con una persona, fra una folla che all’unicità di ogni persona toglieva la sua ragione. Di fronte a lei, sapevamo, due bare: il marito, un figlio. Antonino Saetta, 66 anni, giudice della Corte di Appello di Palermo; Stefano, 35. La sera prima, il 25 Settembre di 29 anni fa, ad una decina di chilometri dall’abitato, in direzione Caltanissetta, su un piccolo viadotto, attraversato mille volte, da loro, da noi, 47 proiettili da “pistola mitragliatrice” li avevano uccisi.

Chi, canuto, aveva memoria propria, scandiva, cupo, che “’na cosa di chista” non si sentiva, “qui, da noi, al paese”, dall’immediato dopoguerra. Era vero. E mai, alla violenza sull’uomo, si era sommata quella all’Istituzione. Eppure, tutt’intorno per le province siciliane, era stata ed era una carneficina senza requie. Negli anni seguenti, anche lì, al paese, ci saremmo rimessi in pari. Stidda. Cosa Nostra. Lenzuoli, dove avevamo dato calci ad una palla. E Livatino, giusti due anni dopo, stavolta verso Agrigento.  Ciascuno ha il suo momento per perdere l’innocenza. E quello fu il nostro. L’omicidio possiede una nascosta, tortuosa, ma potente capacità educatrice. In superficie ci può essere il rigetto, il desiderio di proteggersi dalla paura con la normalità, persino lasciando fare ad un’apparente indifferenza: la sessione autunnale di esami, la chiacchiera con gli amici al bar, i genitori che invecchiano, il primo affacciarsi del pensiero del lavoro, chissà quale, chissà come: per la verità, appena un abbozzo fumoso, a metà fra un divertito gioco di fantasia e un compito in classe, dopo un’adolescenza riparata.

Giovanni Falcone

Ma un omicidio non ha pudore, né riguardi verso tatticismi psicologici di sorta; e incurante di quella superficie giornaliera, scava, scava. Il suo sedimento non è uno spartito netto e solenne, da cui sorge l’inno alla vita. No. Ma, da qualche parte, lascia qualcosa come un segno. Che sta lì. E lo si intende, quel segno, solo quando quella paura: specifica, inconfondibile, sperimentata da ognuno che ha temuto dall’invisibile, dal diffuso potere di uccidere (nel Meridione come nel Settentrione anni prima), a un certo punto, cessa. E non per autosuggestione. Ma perché, a quello stesso punto, non si vedono più lenzuoli, e con quella frequenza. E a lungo non si vedono, e sapendo che “certe facce” non sono più in giro: per una buona e convincente causa, dunque, quella paura viene a cessare. Non più lenzuoli, né facce, né “annacamenti”: per l’assidua volontà di uomini che hanno creduto nei loro doveri, caduti per questo; o di altri, ripagati in vita, con amarezze e ingratitudine di matrice istituzionale (ma, se ricordiamo, pure noti morituri ebbero vita e ruolo assai tormentati). Perciò, se non si uccide più, è un arricchimento unico, un nuovo modo di respirare. Niente può equivalere ad un omicidio; perché niente equivale alla vita di un uomo. Questa è la sua educazione: l’educazione dell’omicidio.

Allora, non è vero che una “funzione amministrativa” vale come la vita di un uomo. Non è vero che un omicidio, un attentato istituzionale, la capacità di commetterli, equivalgono ad una corruzione, alla capacità di compierne. Non è vero che l’intimidazione mafiosa può tradursi in corruttela, per quanto diffusa. Non è vero che l’una e l’altra implicano le stesse forze delittuose, per quantità di azione e qualità di ideazione. La delinquenza mafiosa è stata, nella sua essenza, morte alla persona; e, solo per questo, anche interessi, avidità. Gli interessi, l’avidità, senza quella cruenta puntuazione, che fu sempre attuale, e mai solo potenziale: “riserva di violenza” o simili altre elucubrazioni da trivial pursuit (che sono, per es., fiorite dal processo Mafia Capitale), è solo escrescenza di ogni aggregato istituzionale, di ogni vita sociale ed economica mediamente complesse.

Sentiamo Giovanni Falcone: “Comunque sia chiaro: io non faccio parte di quella categoria di persone che sostengono che la mafia è un fatto economico e sociale”; “...certi fenomeni…sono di squisita pertinenza dell’area criminale, a meno che non si voglia sostenere che, se gli omicidi raggiungono il livello delle centinaia, non sono più un fatto penale, ma un fatto sociologico; sono anche un fatto sociologico, ma sono soprattutto, e prima di tutto, un fatto penale”.

Chi giunse su quel sagrato minimo, su quella scalinata di volenterosa solennità, fra quella moltitudine, ancora vergine di quella cupezza che si incarna, sente un debito in più verso la memoria di Stefano ed Antonino Saetta. Perché, per molti di noi, quella cupezza fu un seme. Non è vero che busta e banconote sono uguali al sangue. E chi lo dice, di un funerale come quello, e di ogni funerale come quello, serba solo gesto e voce di retorica.

Chi lo dice, è un mestierante della memoria, e bestemmia sul suo lascito: la difficile ma intrapresa via del progresso civile, per la Sicilia e per l’Italia.

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Fabio Cammalleri

Fabio Cammalleri

Il potere di giudicare e condannare una persona è, semplicemente, il potere. Niente può eguagliare la forza ambigua di un uomo che chiude in galera un altro uomo. E niente come questa forza tende ad esorbitare. Così, il potere sulla pena, nata parte di un tutto, si fa tutto. Per tutti. Da avvocato, negli anni, temo di aver capito che, per fronteggiare un simile disordine, in Italia non basti più la buona volontà: i penalisti, i garantisti, cioè, una parte. Forse bisognerebbe spogliarsi di ogni parzialità, rendendosi semplicemente uomini. Memore del fatto che Gesù e Socrate, imputati e giudicati rei, si compirono senza scrivere una riga, mi rivolgo alla pagina con cautela. Con me c’è Silvia e, con noi, Francesco e Armida, i nostri gemelli.

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