Da qualche tempo, sul terreno della giustizia e della politica, è in atto una nuova fase: una riscrittura dell’Emergenza, il cui fondamento si può definire “L’Idea Mafiosa”. Dall’atto al concetto.
Corruzione come mafia e, ora, anche, immigrazione come mafia.
In Italia, come sappiamo, nel 1991, furono istituite 26 Procure Distrettuali Antimafia, e una Procura Nazionale. Accanto, e sottoposte, speciali unità investigative: le DIA. Quando si dice che le volle Falcone, si dice una cosa a metà. Falcone avrebbe voluto una Procura Nazionale “operativa”, e le distrettuali “serventi”; e non un Ufficio, sostanzialmente, di semplice coordinamento. Questo perché era consapevole del carattere eccezionale dell’istituto e, quindi, della sua necessaria temporaneità. Il disegno di legge che venne approvato, fu pertanto un accomodamento. Ambiguo. Proprio perché lo svilimento della Procura Nazionale ha permesso di scolorire il carattere temporaneo del Sistema Antimafia. La mafia è un fenomeno umano, sosteneva; e come tutti i fenomeni umani, finirà. Il Sistema Antimafia, da Falcone, era stato pensato a termine.
Per tale ragione, si poteva congegnare il carattere “operativo” di un vertice nazionale investigativo ed accusatorio. Accusatorio: perché aveva iscritto il “suo” sistema nel più ampio campo della separazione delle carriere e della sottopozione del Pubblico Ministero a forme più adeguate di controllo: “finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica della obbligatorietà dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività.” Sappiamo che fu considerato, letteralmente, poco meno che un delinquente, per questo disegno. Dunque, l’impronunciabile, l’indicibile, è il carattere temporaneo del Sistema normativo Antimafia: ordinamentale e processuale. Che, senza la Mafia (qui, al maiuscolo, perché vale come Grundnorm), è entrato in crisi di identità. Il “senza la mafia”, è comprovato da tutti i tentativi, riusciti, e in via di espansione, di riscrittura del “fenomeno mafioso”. Se fosse ancora attivo il calco classico, non ci sarebbe stato bisogno di cominciare a declinare il sostantivo al plurale; come accade, anche in sede legislativa, dall’inizio degli anni 2000; ricreandogli, a cominciare dall’innovativa veste grammaticale, pretesi tratti giuridici nuovi.
Chiameremmo ancora la corruzione, corruzione; e, ora, in tempo d’estate, l’immigrazione, immigrazione. Come prima. In Italia, queste acquisizioni sono pacifiche. Alla fine, vedremo, persino presso certa tradizione da “fun club antimafia”. Magari, per timore, si parla a mezza bocca, ma è tutto noto. All’estero, al contrario, ogni tanto, decidono di stupirsi. E, noi, con loro. Ma guarda, senti che dicono di noi? Così, da un paio di settimane, è accaduto per un lungo reportage di Ben Taub, sul New Yorker. Che si è occupato di un caso, e di un nome: Medhanie Yehdego Mered. In realtà, lo ha fatto anche il Wall Street Journal e, già un anno fa, il Guardian. In Italia, pochino, come ha rilevato lo stesso Taub(si distingue solo una sintesi di questo reportage, curata da Il Post).
Però, il NewYorker si diffonde; e illustra, attraverso questo caso, quello che si è appena detto: l’estensione di prassi e interpretazioni concepite per un oggetto che non c’è più; e i guasti, micidiali, che si teme possano derivarne alla libertà delle persone. Ovviamente, la questione politica dell’immigrazione, rimane dov’è. Con le sue complessità inesplorate. Precisiamo, infatti: per la nota storiella della madre sempre incinta. Il punto non è se questo imputato sia o meno colpevole; per affermare che finora non lo è, a chi scrive, basta la regola costituzionale della presunzione di non colpevolezza. Il punto è la rilegittimazione, chiamiamola culturale, di strumenti coercitivi penali speciali. La quale, è noto, non per nulla, predica pure una falsa reinterpretazione proprio di questa regola.
Oggi, quegli strumenti coercitivi speciali, si chiamano del “Doppio Binario”. Il “Doppio Binario” non è “speciale” allo stesso modo in cui la “custodia cautelare” non è carcerazione preventiva. Sappiano anche quanto appassionino i funambolismi verbali: al bar come sulle riviste dotte. Tribunali Speciali: non si può dire. Doppio Binario: sì. Dunque, lo stupore del NewYorker, dicevamo. Mered, eritreo, nato nel 1981, risulta giunto in Libia nella Primavera del 2013, come rifugiato. Da un profilo Facebook è stata tratta una foto caratteristica: maglietta blu, ricca collana con crocifisso sul petto, volto arcigno. La Procura Antimafia di Palermo, alla fine del 2013, dopo il naufragio di Lampedusa (368 morti), apre un’indagine. Con quell’idea: non si contestano reati di mafia, ma il traffico dei migranti è organizzato in modo analogo alle attività di tipo mafioso: vasto, ordinato, ricco, potente. Anche le indagini dovranno tenerne conto. Parte l’Operazione “Glauco”, divinità greca protettrice dei naviganti. Si punta sui Centri di prima accoglienza; si reperiscono numeri di telefono: molti; e partono le intercettazioni. Sembra accertato che i capi rimangono in Africa, a Tripoli.
Nel Maggio del 2014, si identifica in Mered uno di questi capi, e, ovviamente, si intercetta pure lui. Nota il New Yorker che in questa indagine non ci sono testimoni; benché si faccia credito a Mered di avere trasportato circa 13 mila migranti in Italia. Come pure nota, per inciso, che, nel solo 2013, in Italia Vodafone è stata richiesta di prestare assistenza in seicentomila intercettazioni telefoniche; mentre, le intercettazioni di conversazioni fra presenti, sono state quasi mezzo milione. Ad ogni modo, un anno dopo, Aprile 2015, viene emesso un provvedimento di fermo anche a suo carico. Ne verranno inoltre eseguiti 24 in Italia, ma le indagini interessano anche Germania, Svezia e Regno Unito. Lo cercano a Tripoli. Non si trova. Perse le tracce. Ma nel Gennaio del 2016, la britannica N.C.A. (National Crime Agency) afferma di averlo localizzato in Sudan, a Karthoum. A Palermo sono subito informati. Intercettano di nuovo, anche la moglie, Lidya Tesfu, e il fratello, Merhawi; e di nuovo lo perdono. Pare venga ritrovato grazie proprio ad una telefonata del fratello, in cui, parlando con un tale Filmon, viene evocato un suo spostamento a Dubai: ma con ritorno programmato in Sudan; e, alla fine, nuove intercettazioni e cattura, il 24 Maggio. Due settimane dopo, è estradato in Italia, recluso nella Casa Circondariale “Pagliarelli” di Palermo.
La notizia, secondo il New Yorker, viene corredata di elementi che spaziano dall’implausibile all’assurdo. Affari per “miliardi di dollari”. Finanziatore dello Stato Islamico. Responsabile della strage di Lampedusa, dicono gli inglesi; si atteggia come un ”Gheddafi”, e viene chiamato “Il Generale” (ma pare che la conversazione in cui questo soprannome sarebbe stato pronunciato avesse tono ironico). Suonatori nuovi, spartito vecchio: conosciamo l’impavido senso critico del nostrano giornalismo, diciamo, “d’assalto alla veline di Procura”. Secondo Palermo è uno di maggiori trafficanti di immigranti d’Africa.

Il 10 Giugno, dopo circa due settimane e mezzo di isolamento, viene interrogato, presente il Procuratore Capo, Francesco Lo Voi. Gli viene chiesto se intende le accuse a suo carico. Risponde: “Perché dite che io sono Medhanie Yehdego?”. L’ipotesi che si tratti di un’altra persona non fa trasalire nessuno. Due giorni prima, appena le immagini di Mered in arresto erano state visibili, una giornalista e attivista eritreo-svedese, Meron Estefanos, che trasmette da Radio Elena (una specie di porto franco dell’universo migratorio, in cui chiamano pure “smugglers”, trafficanti; una volta, per protestare contro un servizio a suo dire ingiusto, aveva pure telefonato Mered), era stata tempestata di telefonate da eritrei sparsi per i quattro angoli del pianeta: Estefanos allora chiama il corrispondente italiano del Guardian che copre le immigrazioni; che chiama Lorenzo Tondo, giornalista siciliano; che chiama la Procura di Palermo, con cui vantava entrature, come si dice. Scusate, pare che non sia lui. E’ un altro.
Alla Procura, perciò, la faccenda dell’identità, non giunge nuova, quando interrogano. Però i sudanesi non avevano trasmesso documenti di identità, nè impronte digitali, provocando una certa irritazione, scrive Taub. Ma l’indagato, di fronte ai magistrati, pubblici ministeri e gip, insiste. Prende carta e penna, e scrive, lentamente, meticolosamente, in lingua Tigrinya, molto diffusa in Eritrea: “Il mio nome è Medhanie Tesfamarian Berhe, nato ad Asmara il 12 Maggio 1987”. Ho fatto il carpentiere. Ho venduto latte. Non sono sposato. Vivo ad Asmara con mia madre. Nel periodo in cui, dalla Libia, avrebbe diretto un trasporto in Italia, precisa, mi trovavo ad Asmara, Eritrea. Dopo sono andato in Etiopia, per tre mesi. E da lì, in Sudan; non ho trovato lavoro, mi aiutava un fratello che, dagli Stati Uniti, ogni tanto mi inviava trecento dollari. Ma noi conosciamo anche l’acribia del sospetto, l’uso sapiente di chiavi interpretative concepite per valorizzare l’invisibile, e per svilire il visibile. Berhe è un migrante, a sua volta. Al momento dell’arresto in Sudan, aveva un documento di identità, ed anche il passaporto; ma l’uno e l’altro, afferma, sono stati trattenuti dalla polizia locale. Aggiunge il NewYorker che, secondo sue dichiarazioni informali, la polizia sudanese gli avrebbe anche chiesto denaro; lui non ne aveva, lo picchiano, e lo consegnano come Mered. Si può prenderne atto, così come leggiamo.
Ma torniamo alle dichiarazioni formali. Poco prima del suo arresto, nel Maggio 2016, un suo cugino, immigrato attraverso la Libia, lo aveva chiamato, perché lo aiutasse ad eseguire il versamento da questi pattuito con l’organizzazione di trafficanti per il suo viaggio. Berhe crede, come generalmente gli innocenti credono, che collaborare con i magistrati sia la scelta migliore per dimostrare che non è lui quello che cercano; però sa come funziona quel mondo, essendo un migrante, come detto. E perciò, spiega che esiste una rete di pagamenti clandestina, hawala; svela inoltre la sua password FB ed e-mail. Gli chiedono se conosce persone implicate nelle indagini. Ne conosce alcune per nome di persona, peraltro nomi comuni in Eritrea, o per soprannome. Nel computer trovano un “Filmon”, amico FB di Karthoum; viene identificato con l’interlocutore del fratello di Mered, in quella telefonata in cui si parla della trasferta a Dubai; solo che Berhe ha dodici amici con nome “Filmon”, non un solo.
Si ritengono ulteriori concordanze indiziarie; fra gli appunti sequestrati a Behre al momento dell’arresto, e “timbrati” dalla polizia sudanese, c’è un numero di telefono di un tale Solomon: che in una conversazione del 2014 aveva parlato con Mered della rete di pagamenti hawala, almeno ventisette volte. Inoltre, nell’account FB di Behre, era stata letta una chat: fra lui e la moglie di Mered, una specie di corteggiamento, concluso però con risoluta chiusura della donna; ho già un marito. I due non si sono mai incontrati. Behre, richiesto, ha negato di conoscerla, poichè il fraseggio su un social non gli era apparso tale: tuttavia, la circostanza è stata valorizzata come una sconfessione. Sembra che nel rilevare questo scambio, il passaggio del risoluto congedo non compaia; sicché potrebbe sembrare che Lidya Tesfu sia effettivamente la moglie di Behre, e questo, in realtà, Mered.
C’è infine un video, su Youtube, in cui Behre, insieme ad altri migranti compare nel Sahara; e pure questo video è ritenuto univocamente indizio della sua qualità di trafficante. In effetti, sarebbe singolare filmarsi da aguzzino, piuttosto che da speranzoso migrante. Ma tant’è. Nel frattempo, ad Estefanos, continuano a giungere imperterrite attestazioni sulla identità di Bhere. E, dopo che le notizie cominciano ad essere pubblicamente note, dal sito dell’inglese N.C.A., che pure aveva dato il suo contributo agli annunci magniloquenti, la notizia-icona dell’arresto di Mered viene rimossa. Gli altri abbassano la voce, sentono la morsa del dubbio. Il difensore di Behre si reca al Centro di Siculiana, in provincia di Agrigento, spera di trovare eritrei che possano testimoniare sull’identità di Behre. La Procura scrive alla Prefettura: noi non possiamo formalmente interloquire sulla gestione del Centro; però chiediamo di conoscere i nominativi delle persone che parleranno con l’avvocato. Sono indagini difensive, previste dal Codice; la Procura non proibisce(nè potrebbe), ma alita. Ma lì non ci sono più eritrei; trasferiti. L’avvocato riesce però a produrre il certificato di battesimo di Behre, una sua fotografia da bambino, pagelle della scuola secondaria, il documento di identità scannerizzato. Dai registri scolastici risulta che nel 2010, quando si ritiene che Mered trafficasse nel Sinai, Beher stava completando i suoi studi, presso una scuola di religiosi.
Quanto al tempo, inizio del 2013, in cui si ritiene che Mered agisse in Libia, Behre, secondo attestazioni del Ministero della Sanità, era in trattamento sanitario per lesioni patite in un incidente sul lavoro, capitatogli mentre faceva il carpentiere. Un imprenditore caseario, Thomas Gezae, aveva per iscritto riferito che, dal Maggio 2013 e fino al Novembre 2014, Behre aveva diretto le sue vendite e la distribuzione: proprio quando Mered si occupava di ammassare migranti al punto di raccolta di Tripoli. Lo scorso Dicembre, persino il Governo Eritreo confermava formalmente, con una lettera all’avvocato Calantropo, l’identità di Medhanie Tesfamarfian Behre. Piuttosto ineffabile, la Procura ha rilevato che non ci sono accordi di cooperazione giudiziaria con l’Eritrea. Quanto all’identità, sostiene che Mered si avvalga di pseudonimi, uno dei quali potrebbe essere proprio Behre.
C’è stato anche un pentito, Neuredine Atta. Ben prima dell’arresto di Behre, gli era stata mostrata una fotografia di Mered, con la famosa croce al petto. Disse che ricordava di aver visto quell’uomo su una spiaggia della Sicilia nel 2014, e che qualcuno gli aveva detto chiamarsi Hatbega Ashgedom. Tuttavia, al processo non ha mantenuto questa versione e, in un altro procedimento per analogo delitto, la Procura di Roma sul punto della identificazione di Mered, non lo ha ritenuto attendibile. Appena estradato Behre, gli era stata mostrata anche una sua fotografia, e non l’aveva riconosciuto. In dibattimento, ha affermato che nel 2013 Behre avrebbe partecipato ad un certo matrimonio, e questo avrebbe dovuto smentire l’affermazione di avere lavorato, nello stesso periodo, per l’azienda casearia. Senonché, si sono potuti produrre certificati di matrimonio e fotografie, da cui emergerebbe che quel matrimonio ebbe luogo nel 2015, confermando così le affermazioni di Behre. Il pubblico ministero, al processo, dalla circostanza che Atta non avesse riconosciuto Mered nè Behre, ha argomentato nel senso che sarebbe così dimostrato che potrebbero essere la stessa persona.
Tornano eco nostrane: la nostra “giurisprudenza” insegna che le divergenze fra uno o più “chiamanti in correità, o in reità”, comprovano la genuinità; “ma anche” le convergenze più minute, pure a distanza di decenni, comprovano la genuinità. Vasto arsenale. Tutto con l’accento sulla “a”. Si è poi esperita una perizia fonica, per confrontare la voce dell’imputato Mered/Behere, con quella udita nelle conversazioni intercettate. Il software, Nuance Forensic 9.2, non include il dialetto Tigryna; sicchè la comparazione si è svolta sull’arabo-egiziano, ritenuto il più vicino a quella lingua eritrea. La perizia, rileva il NewYorker non ha risolto la questione della compatibilità. Ad ogni modo, l’esame del perito è prevista per Settembre. Taub, non contento, si è messo in contatto con la moglie di Mered, Lidya Tesfu. La incontra in Svezia il 16 Maggio. Non sa dove si trova suo marito, ma ogni tanto le telefona; Taub la pressa; fammi parlare con lui. Passano i giorni, e niente. Alla fine del mese, finalmente, chiama; e parlano. Sta lì a parlare per tre ore, mediato da un interprete; e offre un profilo articolato di sè, come era logico attendersi; ma gli precisa alcuni dati. Uno, in particolare.
A Taub, Mered dice che l’idea di accostarsi al traffico dei migranti con le categorie investigative antimafia non ha nè capo nè coda. Niente gruppi organizzati o gerarchie; solo un movimento continuo di soldi, rischio e morte. E’ un’opinione, non la verità; s’intende. E semmai proprio qui, su quest’ultima affermazione, si potrebbero, e forse si dovrebbero, aprire mille discorsi: perché, probabilmente, la coincidenza c’è; ma nel senso che anche in Sicilia non c’è stato altro, a ben vedere: solo un movimento continuo di soldi, rischio e morte. Certamente, a partire dalla fine dagli anni ’70: quando si è andata svolgendo la fase epigonale “corleonese”, la più nota, quella a cui tutti universalmente si riferiscono, come modello unico e, soprattutto, eterno. Un’eternità, che secondo Falcone, non era di questo mondo. Un’eternità mafiosa su cui invece è stato costruito un palinsesto ideologico, quasi mitologico; utile riempitivo di norme, di poteri. In Italia, certi discorsi, però, pare sia meglio non avviarli nemmeno. Secondo il NewYorker, che riporta Francesco Viviano di Repubblica, la mafia eterna serve ai magistrati per corroborare “la pubblica percezione che quello che fanno lo fanno da eroi”. Sanno sempre tutto a Repubblica; oggi, dieci, venti e più anni fa; sapevano pure che Falcone era un “guitto”. Ma questo al NewYorker è meglio non dirlo: giusto? Però, anche se fossimo privati di autorevoli avalli, è certo che, fra le altre cose antimafia, abbiamo avuto Scarantino, e alcuni uomini invecchiati per vent’anni in galera “senza titolo”. Ma l’emergenza è l’emergenza; a quanto pare, ci può stare il “fuoco amico”. E Fiammetta si rassegni, meglio se in silenzio. Nel frattempo, anche Beher resta dov’è da oltre tredici mesi; in carcere, a piangere sulla protezione costituzionale della sua presunta innocenza. E noi con lui.