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April 14, 2016
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La morte di un ragazzo e quel calcio alla giustizia

La morte di Massimo Casalnuovo, in motorino senza casco, ucciso in un "incidente" ad un posto di blocco dei carabinieri

Tommaso Della LongabyTommaso Della Longa
massimo casalnuovo

Massimo Casalnuovo

Time: 5 mins read

Quattro anni e mezzo e due gradi di giudizio. Tanto è servito per condannare il maresciallo dei Carabinieri, Giovanni Cunsolo per omicidio preterintenzionale a 4 anni e 6 mesi di carcere, all’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni e a una provvisionale di risarcimento ai familiari della vittima di centomila euro.

La Corte d’Appello di Potenza ha emesso il verdetto a dicembre 2015, ma ancora non sono state depositate le motivazioni. In attesa dell’eventuale ricorso in Cassazione, abbiamo voluto intervistare per la Voce di New York Cristiano Sandri, l’avvocato che ha difeso la famiglia Casalnuovo e ha contribuito a far riformare la sentenza di primo grado. Ma prima facciamo un passo indietro per raccontare al lettore quest’ennesima storia di mala-polizia tutta italiana.

Il 21 agosto 2011, a Buonabitacolo paese di poco più di 2000 anime in provincia di Salerno, il sole è tramontato da poco, i lampioni non sono ancor accesi, l’orario della cena richiama tutti a casa. I carabinieri improvvisano un posto di controllo dietro una curva senza alcun dispositivo che segnalasse la loro presenza vista l’ora: per esempio, nessun lampeggiante acceso, nessun fratino rifrangente. Un carabiniere scrive un verbale per due ragazzi fermati in motorino senza casco. L’altro agente è dall’altra parte della strada. Da dietro la curva arriva un ragazzo di 22 anni, Massimo Casalnuovo, in sella a un motorino di cilindrata 50. Incensurato, disarmato, conosciuto da tutti per la sua passione per il calcio, lavora nell’officina del padre e sta tornando a casa. Massimo è senza casco. Il carabiniere, che stava dietro la curva, gli si mette davanti. Massimo lo scarta e forse fa questa mossa solamente per evitare di investirlo. L’altro carabiniere, dall’altra parte della strada, scende dalla macchina di servizio e cerca di fermarlo. Pochi istanti dopo Massimo è a terra tra la vita e la morte.

Da qui in poi, le versioni sono diverse. Il maresciallo dei carabinieri che è balzato fuori dalla macchina racconta che Massimo ha accelerato per evitare di essere fermato e ha perso il controllo del mezzo. Secondo l’agente, Massimo avrebbe anche tentato di investire uno dei due militari. I testimoni oculari, i due ragazzi presenti, vedono, però, un’altra scena e non rimangono in silenzio: “Il maresciallo dei carabinieri è balzato fuori dall’auto dove stava redigendo il verbale e ha cercato di fermare il motorino. Il conducente lo ha evitato, il militare ha sferrato un calcio sul lato sinistro del mezzo, un Beta 50. Il ciclomotore ha percorso ancora alcuni metri sbandando, poi è sbattuto contro un muretto a secco di un ponte che sovrasta il fiume Peglio. Il ragazzo che lo guidava è stato sbalzato a terra, aveva sangue sulla fronte e non appariva cosciente”, ha spiegato Emilio Risi al Corriere del Mezzogiorno. La stessa testimonianza è confermata da un altro ragazzo presente. Ad avvalorare la tesi che qualcosa di strano fosse accaduto, i carabinieri spostano subito la macchina. L’arrivo di molti cittadini impedisce di fatto di sparigliare le carte. Il pubblico ministero chiamerà poi la Polizia per fare i rilevamenti, visto che altri due carabinieri avrebbero voluto farlo, non garantendo così l’imparzialità di giudizio. Arriverà una prima ambulanza, ma non attrezzata per la rianimazione. Poi una seconda. La corsa in ospedale con il ragazzo esanime, morto per il colpo violento al torace. Infine la vergogna di trovare già i carabinieri nella struttura medica che erano corsi lì per farsi refertare il piede “per il tentato investimento”.

Come molto spesso accade in questi casi, il primo grado finisce con una veloce e blanda sentenza di assoluzione con formula dubitativa perché il fatto non sussiste, a seguito del giudizio abbreviato richiesto dall’imputato. Un piccolo tribunale, quella di Sala Consilina, dove magistrati e polizia giudiziaria si conoscono bene e dove il condizionamento ambientale è forse molto più semplice. E poi il ricorso in appello: “Tra i motivi d’appello presentati vi era la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, erano troppi gli elementi valutati in modo disarmonico, come, ad esempio, l’interpretazione singolare delle testimonianze riversate negli atti”, spiega l’avvocato. Nel mentre, il Tribunale viene accorpato a quello di Lagonegro in Basilicata e quindi l’appello si celebra davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Potenza. Altra regione, altra aria. “Nella motivazione della sentenza di primo grado, tra le altre cose, il giudice non ha citato la testimonianza di un altro soggetto che nell’immediatezza dei fatti riferiva chiaramente delle urla ‘è stato lui!’ dei presenti che indicavano il Carabiniere. Una grave omissione, un elemento troppo importante che poi ha avvalorato la richiesta di un nuovo dibattimento”, continua Sandri.

cristiano sandri
L’avvocato Cristiano Sandri

Così si risentono i testimoni e per tutelare l’imputato, nonostante avesse chiesto il rito abbreviato e quindi non ne avesse formalmente il diritto, è ascoltato anche un nuovo testimone della difesa, il collega del maresciallo che però fornirà una terza versione dei fatti. “Il racconto sembrava quasi fantascientifico ma davanti alle prove testimoniali, ai rilevamenti, alla traiettoria del motorino e a questa ennesima versione non si poteva che arrivare alla condanna del carabiniere”, spiega l’avvocato della famiglia Casalnuovo. “A questo punto aspettiamo ancora le motivazioni – continua – Quando arriveranno ci saranno 45 giorni per un ricorso dell’imputato in Cassazione”.

Giustizia è fatta, verrebbe da dire. Ma alcuni interrogativi sono d’obbligo. Quanto può essere sereno nel suo giudizio un magistrato che lavora quotidianamente con l’imputato? In casi del genere non si dovrebbe evitare questa “vicinanza”? E ancora, qual è il ruolo della stampa nel delegittimare le vittime, mettere all’angolo quelli che chiudono giustizia e soprattutto non mettere in discussione le veline delle questure? Nel caso di Federico Aldrovandi (diciottenne ucciso a manganellate da quattro agenti di polizia a Ferrara nel corso di un controllo nel 2005 ndr) la stampa locale si era rifiutata di trattare l’argomento. Nel caso di Gabriele Sandri (dj romano ucciso nel 2007 da un colpo di pistola sparato da una parte all’altra dell’autostrada A1 dall’agente della polizia stradale Luigi Spaccarotella ndr) la procura di Arezzo ha convocato una conferenza stampa in cui si parlava di fantomatici scontri tra tifosi all’area di servizio e in cui non è stata concessa alcuna domanda, nel silenzio generale dei cronisti presenti.

“La pubblicità del processo penale è un cardine di democrazia, ne consegue che sia legittima l’attenzione dell’opinione pubblica che dovrebbe essere sempre informata correttamente dalla stampa e non in modo parziale in tutti i sensi. Da avvocato devo sottolineare la mia fiducia nel sistema: i processi non sono persi in partenza, altrimenti non andrei nemmeno in aula. Un giudice può sbagliare, ma è difficile trovarne due di seguito che si comportino nello stesso modo”.

Aspettando l’ultimo grado di giudizio, Massimo, la sua famiglia, i suoi amici hanno dato un nuovo significato alla parola “giustizia”. Resta il devastante dilemma di come sia possibile morire a vent’anni uccisi da chi ha giurato di proteggere la patria e i suoi cittadini. Massimo non aveva colpe, se non essere senza casco. Il maresciallo dei Carabinieri poteva facilmente trovarlo a casa e invece ha voluto far capire “chi comandava” con un gesto sconsiderato, un calcio che ha portato alla morte del giovane. Nei successivi quattro anni e mezzo, la solita malsana difesa corporativa non richiesta. Per inciso, il carabiniere in questione è stato solo trasferito insieme al suo collega. Veste ancora la divisa. Certo, per l’Arma dei Carabinieri e il codice penale militare bisogna aspettare l’ultimo grado di giudizio. Ma il buonsenso, quello sì, vorrebbe che quanto meno una sospensione fosse già esecutiva. Per dare un esempio e soprattutto per far vedere che in Italia nessuno è intoccabile.   

Post scriptum: Anche se non c’entra nulla con la morte di Massimo Casalnuovo, penso sia il caso di raccontarlo. Pochi giorni fa a Napoli, durante gli scontri tra manifestanti e polizia, un poliziotto è stato ritratto in una foto mentre raccoglie una pietra e la scaglia contro i manifestanti. Un po’ come se fossimo in una guerriglia tra bande. Peccato che in Italia non ci sia ancora per legge un numero identificativo sul casco del reparto celere. Solamente in questo modo avremmo potuto identificare il poliziotto e spiegarli che no, proprio no, le pietre non si possono lanciare. Tanto più se si porta una divisa.

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Tommaso Della Longa

Tommaso Della Longa

Giornalista, giramondo, romano e romanista, classe 1980. Scrittura e viaggio sono la mia vita. Per anni freelance in zone di crisi, poi nell’umanitario, prima nella Croce Rossa Italiana e poi in quella Internazionale. Ho tanti posti preferiti, tra cui Gerusalemme, Beirut, il Turkana e Belfast. Porto nel cuore le storie delle persone incontrate, dal Congo alla Siria, fino alle strade italiane. Il sorriso dei migranti, in Serbia come in Iraq o a Lampedusa, mi spinge ad andare avanti cercando di capire, imparare e raccontare sempre la verità, anche se scomoda. Ho denunciato gli abusi “in divisa”, come ho indagato sulle pagine buie degli anni di piombo. Dopo un anno a Beirut, sono tornato a Roma, perché ancora credo si possa costruire qualcosa in Italia. Sono un irriducibile idealista, lo so.

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