Era il dicembre 2010 quando una serie di manifestazioni di piazza scuoteva il Centro-Sud della Tunisia dopo il suicidio di Mohamed Bouazizi, giovane ambulante datosi fuoco dinanzi alla sede del governariato di Sidi Bouzid. Mohamed aveva ventisei anni, aveva studiato, ma era costretto a vendere frutta e verdura per mantenersi. Più volte la polizia locale lo aveva redarguito e umiliato per quella licenza che ancora non possedeva: come quel giorno di dicembre. Era accaduto per l’ennesima volta: una vigilessa gli aveva sequestrato la merce e lo aveva costretto a lasciare il suo banchetto. Mohamed, disperato, scelse di cospargersi di gasolio e darsi alla morte.
Dal gesto estremo di quel moderno Jan Palach dalla pelle ambrata, la protesta immediatamente infiammò le piazze tunisine, trasformandosi in un moto contro il regime autoritario di Ben Alì. Era l’inizio della primavera araba.
Tunisi e le sue piazze insanguinate divennero immediatamente il simbolo di quei giorni: una vera battaglia tra manifestanti e l’esercito governativo. Fino a quando il capo di stato maggiore Rachid Ammar scelse di passare alla Storia, rifiutandosi di sparare sulla folla: quello fu il segno di come quella protesta non era più una semplice sommossa, era qualcosa di più, un segno destinato a cambiare per sempre il mondo arabo. In che modo? Stentiamo ancora a comprenderlo. Ne seguì la proclamazione dello stato di emergenza, la fuga di Ben Alì e l’accensione delle piazze in Egitto, Libia, Bahrein, Yemen, Marocco, Algeria, Giordania e Siria, in uno strano effetto domino arabo.

In Occidente l’avevamo chiamata “rivoluzione dei gelsomini”, a ricordare quel simbolo gentile della Tunisia e, forse, per attirare quel buon auspicio che le rivoluzioni dal nome dei fiori hanno sempre portato: garofani, rose, tulipani…. Ma cosa è rimasto di quel gentil profumo, mentre il resto del mondo arabo è finito sull’orlo del precipizio? Un Egitto nelle mani dei Fratelli Musulmani e poi nell’incertezza del dopo Morsi; una Libia in cui si apprestano a intervenire gli Stati Uniti assieme a Francia, Italia e Regno Unito; una Siria straziata dalla guerra civile; uno Yemen tornato a essere l’oscuro Vietnam dei Sauditi.
Restano, tuttavia, i gelsomini tunisini. La transizione, avviatasi, dopo le proteste del 2010/2011, aveva dato vita ad un delicato momento di riforme di cui l’Alta Autorità per il raggiungimento degli obiettivi della rivoluzione, della riforma politica e della transizione democratica è stata massima espressione. Questa sorta di organo supremo ha riunito assieme le principali forze politiche, sindacali, esponenti della società civile e delle organizzazioni nazionali e ha assistito il governo nella transizione fino all’elezione dell’Assemblea Costituente. Il risultato migliore è stato senza dubbio quello elettorale, che ha portato a un sistema proporzionale con liste bloccate (ma non ci sarebbe da puntare il dito a tal proposito), con presenza alternata di uomo e donna. Un successo annunciato, quello che portò a una partecipazione elettorale che sfiorò il 90%, sancendo la vittoria di Ennahda, il partito degli islamisti moderati, ma anche i laici del Congresso per la Repubblica, guidati da Moncef Marzouki.
Difesa delle donne e diffusione dell’istruzione, questa è stata la ricetta della Tunisia dal 1956: pur tra mille difficoltà il paese ha puntato su questo tipo di sviluppo con il fine di costruire uno stato moderno. Ci è riuscita? Abbastanza. Una scolarizzazione che sfiora percentuali altissime, che ha reso obbligatori i primi nove anni di istruzione, e un movimento femminista che si è rimboccato le maniche già all’indomani dell’indipendenza attraverso l’Union Nationale de la Femme Tunisienne (UNFT), spesso sostenuto da larghe fette di “femminismo maschile politicizzato” che ha, di fatto, istituzionalizzato il movimento.
Questo background si è oggi fuso con le idee della jeunesse tunisina con la laurea in mano, con le nuove tecnologie che hanno mandato in diretta mondiale le rivolte, con il desiderio di lottare contro la disoccupazione e il degrado delle aree rurali. Senza dimenticare che il principale prodotto della primavera di Tunisi è stato il compromesso tra la politica laica e quella islamista. Ciò ha creato i presupposti per una società civile forte, cosciente di sé, dove donne e giovani sono il principale baluardo contro le derive terroristiche.
Non è un caso che l’ISIS sia una delle minacce più temute dal Paese. Nel 2015 lo Stato Islamico ha colpito per ben tre volte qui: prima al museo del Bardo, poi a Sousse e ancora a Tunisi nel novembre scorso. Attacchi volti a sconvolgere la resistenza tunisina, il suo ordine lentamente democratico, ma comunque, a suo modo, democratico. Ed è proprio quella zona di nessuno – al confine con l’Algeria – che preoccupa Tunisi e suoi delicati equilibri: è questa la fascia che è stata scelta come base operativa dai militanti islamisti.
Oggi i gelsomini tornano ad agitarsi al vento di nuove proteste. Il progresso politico del paese stenta ancora a raggiungere quello economico (la Tunisia non possiede risorse petrolifere e le percentuali di investimento sono bassissime) e la disoccupazione, solo nel 2015, è salita al 15% con un terzo dei disoccupati costituito da giovani laureati. Kasserine e tante altre città tunisine ci riportano, in questi giorni, proprio a sei anni fa: e se il sospetto di infiltrazioni dell’ISIS alimenta i timori europei, le manifestazioni di queste ore sembrano somigliare sempre più, invece, a una rivoluzione permanente. Una società civile che ha acquisito coscienza e definizione sei anni fa e che chiede verifica di quelle promesse. Sono i sindacati, infatti, i principali protagonisti di questi giorni e non gli islamisti, come è accaduto altrove. Il loro grido di battaglia è “dignità e lavoro” e non di certo “Allahu Akbar”. E finché quel grido sarà scagliato contro il governo e il sistema, senza trovare risposte nel Califfato della morte, la primavera tunisina sarà salva.
Una leggenda araba racconta che alcune piccole stelle del firmamento, perché troppo chiassose, vennero scagliate nel fango sulla terra. Bersto, Signora dei Giardini, le ripulì dal fango e per salvare la loro grazia le trasformò in fiorellini bianchi profumatissimi. Quei fiori sono i gelsomini, stelle destinate a resistere. Come i ragazzi tunisini.
* Francesca Salvatore ha una laurea in Scienze Politiche e un Ph.D. in Relazioni Internazionali con una ricerca sulle relazioni India-Stati Uniti negli anni dell’amministrazione Kennedy. Oggi collabora con il Centro Studi Relazioni Atlantico-Mediterranee (CeSRAM). Un piede nell’accademia, l’altro nel giornalismo, negli ultimi anni ha vissuto tra India, Stati Uniti, Gran Bretagna, Salento e…il resto del mondo. È per questo che tutti la chiamano La ragazza con la valigia.