Detta banalmente è la caduta degli Dei. Dopo Alcaraz, anche il cannibale Djokovic è uscito dall’US Open, mai così sorprendente. Il serbo è caduto sotto la manona di Alexei Popyrin, 25 anni appena compiuti, nato a Sydney ma di origini russe, arrivato da pochissimo a ridosso dei primi venti del ranking: una grande promessa che finalmente si realizza.
Il torneo 1000 di Montreal, portato a casa due settimane fa, non è stato una fortunata combinazione astrale: è lui l’eroe del giorno (o meglio: della notte di New York), il ragazzone ciondolante che ha fatto fuori l’asso pigliatutto, incapace di offrire un’efficace resistenza all’aggressività del rivale. È stato un doppio choc: per Nole e per il pubblico dell’Arthur Ashe, diviso a metà nel tifo per il vecchio campione o il talento emergente. “Sono arrabbiato e deluso”, ha ammesso in sala stampa il fuoriclasse battuto. Ha accettato però la sconfitta di quel se stesso sfocato, riconoscendo di aver espresso un tennis molto inferiore al suo standard. In effetti Nole è sembrato l’ombra già intravista a luglio nella finale di Wimbledon, l’abusivo strapazzato da un Alcaraz in gran forma. Altri momenti per entrambi, rimasti fuori dai giochi già nella prima settimana dello Slam americano. Chi se l’aspettava? Dei medagliati olimpici in singolare — l’altro è Musetti — non è rimasto nessuno e il dato fa riflettere.
L’eliminazione precoce a Flushing Meadows brucia. Per risalire a un flop così clamoroso bisogna tornare a 18 anni fa: allora il giustiziere di Nole fu Lleyton Hewitt, oggi capitano della squadra australiana di Davis e ieri nel box di Popyrin. L’allievo è stato semplicemente perfetto. Appoggiandosi al servizio bomba, ha saputo cucire la trama con potenza e mano educata: pronto in risposta, resistente da fondo, efficace nella copertura della rete. Coraggioso e soprattutto bravo a tenere sul piano mentale, man mano che il clamoroso risultato prendeva forma. I primi due set sono filati via relativamente lisci: un doppio 6-4 ha consegnato all’aussie le chiavi del match, gestito fin lì con grande sapienza tattica. C’era ovviamente da aspettarsi la reazione del Djoker, arrivata in effetti subito dopo. Il vampiro ha affilato i canini issandosi sul 3-0 in un batter di ciglia: film visto e rivisto — è stato il pensiero della folla in tribuna — l’avvio della rimonta. Stavolta senza neppure passare dal faccia a faccia con lo specchio dentro lo spogliatoio, quando per solito nel timeout Nole rianima l’io ammaccato. Non ce n’è stato bisogno: 6-2 e partita riaperta. Apparentemente.

Il quarto set è stata la cartina tornasole della sfida. Sul 2-2 Alexei ha trasformato una cruciale palla break, respingendo poi il contrattacco del rivale: palla corta e passante, ace, un dritto inside-out terrificante rimasto dentro per un capello. Il sorriso sarcastico del serbo valeva più delle parole, eppure l’highlander ha trovato lo slancio per risalire dal quel 2-5 che suonava a morto. Ha messo insieme le poche energie rimaste, s’è preso due game consecutivi, però s’è arreso alla chiusura travolgente di Popyrin: 6-4 e fine della corsa. “Ho faticato a ritrovarmi dal punto di vista mentale”, è stata l’analisi sincera in sala stampa. “Avevo speso tanto — ha continuato — per vincere l’Olimpiadi a Parigi, su una superficie molto più lenta come la terra rossa. Qui a New York ho provato a dare il meglio pur privo di una preparazione specifica sul cemento, però non ce l’ho fatta a ricalibrarmi. Fisicamente sto bene, non è quello il problema. Ho servito molto male e senza punti gratuiti è impossibile vincere contro un avversario del genere”, ha concluso.
Già, il servizio: a fronte di 16 ace, Djokovic ha commesso 14 doppi falli. Un’enormità per lui. Errore strategico anche le continue discese a rete, arma impropria del suo repertorio: 19 punti vinti su 40 la dicono lunga su una contromossa non azzeccata. Perché insistere nella tattica suicida? La risposta è chiara. “Ho provato a cambiare lo stato delle cose, e a volte diventa un problema perché sai che ti allontani dai fondamentali del tuo gioco, gli elementi che funzionano sempre. Se va male perdi le basi. Perdi il movimento naturale, il tempismo, il ritmo: perdi tutto. Il tuo gioco va in pezzi. Succede”.
Inevitabile la domandona finale: chi vincerà l’US Open? “Ovviamente Sinner è il favorito principale, ma poi Tiafoe è lì, così come l’altro americano Fritz. Ci sono tanti ragazzi che giocano bene, c’è Zverev, ci sono Rublev e Dimitrov in questa parte del tabellone. Chiunque può vincerlo”. Senza il vecchio zio in gara, è partita la muta dei cani a caccia della volpe rossa — inutile spiegare chi sia. Preparate i popcorn, oppure panini e caffè per le lunghe notti americane.