Il filmato su Youtube la dice lunga sulla loro rivalità. Le sequenze sono datate 2019, è una partita sulla terra battuta di Villena, paesotto nella provincia di Alicante. Di fronte due ragazzini: il più piccolo ha 15 anni e due mesi, l’altro è quasi diciassettenne. Si gioca il primo turno del torneo Challenger. Sono junior ma hanno avuto una wild card a invito dall’organizzazione. Promettono bene. Gli spettatori si contano sulle dita della mano, eppure chi è sulle tribunette si rende conto di assistere a una doppia epifania: quegli adolescenti se le danno di santa ragione dalla prima all’ultima palla. Il ritmo è terrificante, un braccio di ferro assassino. Vincerà quello con i capelli neri, rimontando nel set decisivo lo svantaggio di 3-0 per bruciare sul traguardo quello con i capelli rossi.
Da allora a oggi non sono cambiati più di tanto. Carlitos, abbronzato e brufoloso, maglietta chiara con la banda, sembra ancora il monello che aspetta di correre in spiaggia con paletta e secchiello. Jannik, lentigginoso, pelle trasparente, somiglia invece a un escursionista, pronto ad arrampicarsi zaino in spalla dietro uno stambecco sulle montagne. Due più diversi per indole e caratteristiche tecniche è difficile trovarli. Ma qualcosa li accomuna: giocano a tennis divinamente, ciascuno a modo suo. Da professionisti si sono affrontati 12 volte, compresa l’esibizione ricchissima in Arabia Saudita. Alcaraz comanda 7-5, ha vinto gli ultimi tre confronti diretti, però è secondo in classifica e resterà tale comunque finisca il match di domani. Il numero uno è Sinner per distacco, ha appena festeggiato al Roland Garros le 52 settimane ininterrotte al vertice malgrado la sospensione di tre mesi.
Domani sul Philippe Chatrier sarà però un giorno speciale. “È la prima finale Slam della nuova era”, l’ha definita Paolo Bertolucci, braccio d’oro, uno dei quattro azzurri che vinsero la Davis in Cile nel 1976. Perché è indubbio che Jan e Carlos siano già il futuro. Un computer e un giocoliere. Il tennis che esprimono viaggia alla velocità di un jet supersonico, a diecimila metri d’altezza. Prova a prenderli, non ci riuscirai. Spiega lo zio Djokovic, l’highlander fatto fuori dall’azzurro in semifinale: “Sinner e Alcaraz ti mettono addosso tanta pressione, sono costantemente su di te e il forcing aumenta man mano che la partita prosegue. Sai che devi stargli dietro, diventi ansioso e sbagli cercando il colpo risolutivo che ti sottragga all’assedio. Ti rubano il tempo”. Già, il tempo. Nole a 38 anni resta un giocatore formidabile, il più grande di sempre capace di battere tutti in una sfida secca. Tutti meno loro.
Il tennis firmato Jannik e Carlos è un videogame che ha spedito in soffitta il flipper lampeggiante dei predecessori. Chiaro che il tempo passerà anche per lo spagnolo e l’italiano. Arriverà un’altra generazione che sarà ancora più potente, veloce, resistente alla fatica e alle emozioni: si sentiranno un po’ più vecchi, assediati, cercheranno di resistere ma alla fine dovranno rassegnarsi al sorpasso. Quanto ci vorrà? Occhio e croce, almeno almeno una decina d’anni: attenti a quei due, hanno scavato un fossato invalicabile attorno al castello di Camelot. I bookmaker li danno quasi alla pari per la Coppa dei Moschettieri. Alcaraz è il campione uscente. Sinner riporta il Tricolore in finale quarantanove anni dopo il trionfo di Adriano Panatta (il primo era stato Giorgio De Stefani nel 1932, preistoria), sulla scia di Nicola Pietrangeli che conquistò il titolo a Parigi nel 1960 e nel 1961. La tivù era in bianco e nero. Domani gli italiani vedranno la partita in chiaro a furor di audience: Discovery s’è accordata con le altre piattaforme per offrire le immagini della diretta sul canale Nove. È la prova che questo match scavalca lo sport, è diventato un evento per famiglie sociale contagioso.
Resta da dirimere chi dei duellanti è il migliore. “Sinner ha una costanza clamorosa e un livello tennistico davvero altissimo. Carlos lo vede, si carica e cerca di migliorare anche lui. Si alimentano a vicenda”, dice Juan Carlos Ferrero, ex numero uno del ranking e oggi coach di Alcaraz. Ogni partita è diversa specie sul rosso: un nastro perfido, un falso rimbalzo, una folata di vento, il tetto dello stadio aperto o chiuso, il sole e i riflettori, il campo secco o molle, la pallina che salta o muore sul mattone tritato gonfia di umidità. È la Formula Uno prestata al gioco del Diavolo, codificato nel 1874 dal maggiore gallese Walter Clopton Wingfield e rimasto uguale: due racchette, quattro palline, le righe, i paletti e una rete sospesa nel mezzo. Nient’altro. In fondo la vita è tutta qui.