C’è un atleta leggendario che supera per risultati gli altri grandissimi dello sport italiano. Più forte di Valentino Rossi, Meazza, Vezzali e Federica Pellegrini. Più di Coppi e Bartali e di Tazio Nuvolari. E’ diverso da tutti, il suo nome è Varenne detto Il Capitano: il più incredibile trottatore di sempre. Un cavallo? La definizione è impropria. C’era una volta il fondista cecoslovacco Emil Zatopek, quattro ori e un argento alle Olimpiadi fra Londra e Helsinki: l’uomo chiamato cavallo. E c’era il cubano Alberto Juantorena, che vinse 400 e 800 metri ai Giochi di Montreal: lo definirono El Caballo de la revolucion. All’inverso, Varenne è il cavallo che s’è fatto uomo. Basta guardare gli occhi: caldi, scuri, intelligenti, scintillanti, profondi. Separati da uno spruzzo bianco sulla fronte. Un tipo che non fa il divo, pur essendolo: lo fissi e ti segue, gli parli e ti ascolta attento. Pensa, riflette. Davanti alla telecamera aspetta la lucina rossa. “Mai incontrato un attore bravo quanto lui”, dice Luca Ward che gli ha prestato la voce in un docufilm.

Ha compiuto trent’anni, il fenomeno. Li ha festeggiati ieri con la torta di carote e mele nella Piana del Sele, perché da fine marzo il suo buen retiro è l’allevamento Lj di Dario De Angelis. Varenne s’è fermato a Eboli in un resort a cinque stelle, lontano dalle brume pavesi di Villanterio dove abitava. A fargli gli auguri il driver romano Giampaolo Minnucci, la tata storica Daniela Zilli e Daniele Giordano, figlio di Enzo, il proprietario scomparso ai primi di maggio: l’agente di cambio napoletano che l’acquistò intuendone la straordinaria unicità. Difficile interpretarne i sentimenti. E’ autorevole e regale, fiero eppure ubbidiente se sussurri le parole giuste. Nervoso quando qualcosa o qualcuno lo infastidisce, ma è insolito che gli girino perché è una creatura buona. Consapevole di ciò che gli sta intorno: sa chi è e che cosa rappresenta per quelli — sono decine di migliaia — che si mettono in fila per vederlo da vicino, fotografarlo, sfiorarlo con una carezza. Anche se non corre più dal 28 settembre 2002, l’ultima gara in Canada.
Uno come Varenne non s’era mai visto e mai più si vedrà. Ha totalizzato prize money per oltre sei milioni di euro, diventando il trottatore più ricco di ogni epoca. Il solo a fregiarsi del titolo di “Cavallo dell’anno” in tre differenti Stati: l’Italia nel 2000, 2001 e 2002; la Francia nel 2001 e 2002; gli Usa nel 2001. L’unico ad aver fatto il Grande Slam trionfando nel 2001 al Grand Prix d’Amerique a Parigi, il Lotteria ad Agnano, l’Elitloppet a Stoccolma e la Breeders Crown all’ippodromo delle Meadowlands nel New Jersey. Ha fatto innamorare l’Italia il 28 gennaio di ventiquattro anni fa, trionfando sulla carbonella di Vincennes — successo bissato nel 2002 — nel tripudio di bandiere tricolori, tra i francesi che s’incazzano e i giornali che svolazzano.
E’ stato un fulmine in pista. Un tumulto, un’emozione potente, la canzone di Jannacci: Ma ecco che un giorno compare un campione / Come legato a un turbine azzurro / E tutti a gridare un nome solo, forte / Varenne, Varenne, Varenne, très bien. L’orgoglio patrio. “Quando vinceva, era la nazione intera a vincere”, spiega Minnucci, il pilota sul sulky compagno di sfide e trofei. “Gli americani avevano messo sul piatto un assegno con tanti zeri per portarselo via, ma non si può vendere un dono del Signore”, aggiunge. Era stato lui a compralo per 180 milioni di lire a nome di Giordano. “Altri l’avevano scartato per un chip: un’anomalia, il soprosso a una zampa. Noi non avevamo dubbi su di lui”. E pensare che Varenne aveva esordì a tre anni con una squalifica a Bologna: malgrado la rottura rimontò tutti, chi aveva assistito all’epifania ne rimase impressionato.

Il suo destino è una suggestione intrecciata alla Storia. Figlio dello stallone americano Waikiki Beach, ha nelle vene il sangue italianissimo della madre — la fattrice Ialmaz — anche se a battezzarlo è stato il primo proprietario Jean Pierre Dubois. Il nome corrisponde alla via della nostra ambasciata a Parigi: rue de Varenne. Parola fatidica, perché la nuit de Varennes è l’inizio del mondo nuovo segnato dalla Rivoluzione. Un salto all’indietro lungo più di due secoli porta alle ore tra il 21 e il 22 giugno 1791, quando il sindaco del paesino arresta Luigi XVI e Maria Antonietta in fuga: preludio alla ghigliottina, fine di un’era. Il ritorno al futuro nella macchina del tempo è un’altra nuit de Varenne, stavolta senza la esse finale. Una notte buia e tempestosa, tuoni e lampi a flagellare la campagna ferrarese: è il 19 maggio 1995. Nell’allevamento di Zenzalino nasce il figlio del vento, anche con lui inizia il mondo nuovo.
Due settimane fa il prodigio ha sfilato sul prato di Agnano, diecimila persone a invocarlo. Acclamato come un santo in processione nel giorno del Gran Premio. E’ probabile che gli sia balenato il ricordo della corsa, il traguardo, gli applausi, la gloria. Ora la sua vita è relax e passeggiata quotidiana, finita anche la stagione della monta meccanica: il prezioso seme ha prodotto centinaia di figli in provetta, basta così. E chissà se gli manca Minnie, pony Shetland che l’aspettava ogni giorno al di là del recinto. Varenne è un maschio alfa e le femmine lo annusano da lontano, bello com’è. Il campionissimo. Il cavallo che volle farsi uomo.