Una ferita che si apre all’improvviso. La solita, nel punto vulnerabile: il costato. Berrettini scuote la testa, si avvia lentamente verso il seggiolone dell’arbitro, mormora due parole e stringe la mano a Casper Ruud fermo dall’altra parte della rete. Poi si infila tra gli applausi del pubblico sconcertato nel tunnel dello stadio, a testa bassa con l’indice e il pollice che stringono gli occhi. Ricaccia indietro le lacrime, ma il colpo è durissimo da accettare. Dopo Madrid, stessa sorte a Roma, casa sua: Matteo è costretto a ritirarsi per la fitta agli addominali che gli impedisce di battersi, respirare, vivere per il tennis. “Non me lo merito”, sussurra. La sua partita dura meno di un’ora e lascia interrogativi profondi. Perché conduce all’ennesimo esame di riparazione e questa non è una metafora né un modo di dire: è la realtà. Qualcosa s’è rotto di nuovo nel corpo. Esiste una cura? Ha senso lavorare così tanto, ogni volta, per tornare in campo e scontrarsi con la cattiva fortuna? E’ un gioco dell’oca perverso che riporta invariabilmente alla casella zero. Ed è complicatissimo trovare dentro di sé il desiderio di continuare.
Ruud interpreta il sentimento dell’arena, da galantuomo qual è. Prende il pennarello e scrive sull’obiettivo della telecamera: Sorry Matteo, feel better – che peccato, rimettiti presto. Berrettini aveva lottato da gladiatore, con la ferocia e la rabbia di chi annusa gli odori del Foro dopo quattro anni di assenza. L’ultima partita sul Centrale l’aveva persa contro lo stesso rivale, negli Internazionali del 2020: sconfitto al tiebreak del terzo set per un’incollatura, a un centimetro dallo striscione della semifinale. Corsi e ricorsi. Il romano era partito lento, secondo i tempi del suo motore diesel. Ha annullato subito una palla break, è risalito da un doppio fallo pericoloso nel turno di servizio successivo, poi si è sciolto. E si è visto finalmente il Martello.
Il norvegese non è stato a guardare. La sua palla robusta e ricca di rotazioni ha tenuto dietro l’avversario, senza dargli spiragli in cui infilarsi. Pian piano però Berrettini s’è preso un po’ di spazio. Ha infilato una striscia di 13 punti consecutivi nei turni di servizio e ha visto vicino il break provvidenziale. E’ accaduto sul 4-4 e zero trenta, con l’altro alla battuta. Qui si è capito perché Ruud è un professore, perché sulla terra rossa rappresenta un ostacolo per tutti, perché sa sempre che cosa fare in campo. Così ha messo dentro quattro prime palle, cardine dei suoi schemi, risolvendo il momento critico. Matteo gli è rimasto a ruota con coraggio, credendoci, finché inaspettatamente ha ceduto a zero il game che l’avrebbe issato al tiebreak: 7-5 per il norvegese, match tutto in salita.
Dieci minuti dopo s’è capito il motivo di quel repentino calo fisico e mentale, proseguito con un break all’inizio del secondo set. Il filo dell’energia s’era spento con quella rasoiata a tradimento: 2-0 e ritiro. Fine dello spettacolo, fine dei sogni. “Avevo capito tutto già ieri mattina. Un risveglio difficile, la percezione del dolore. Ho giocato ugualmente il doppio assieme a mio fratello Jacopo, non potevo tirarmi indietro, c’era una promessa fra noi”, ha spiegato in conferenza stampa. E ancora: “Oggi non sapevo se sarei sceso in campo fino a mezz’ora prima dell’inizio. Poi ha prevalso l’amore che porto a questo gioco. Ho pensato: dai, proviamoci. Mi ha stupito vedere che il livello era alto, finché ho sentito la fitta che purtroppo conosco bene”. Infine: “Spero di essermi fermato in tempo, di non dover passare tre mesi a cercare di ricostruirmi, di non dover saltare per aria a ogni starnuto”. Auguri Matteo, è dannatamente vero: non te lo meriti.