Il futuro del tennis ha un cuore nuovo. Sì, certo, lo zio Djokovic non ha nessuna intenzione di scansarsi ma beata gioventù: Jakub Mensik, classe 2005, è il campione del Miami Open. Ha vinto alla sua maniera grazie alla specialità della casa, un doppio tiebreak e arrivederci in un match vissuto pericolosamente. La pioggia incessante ha stravolto il programma, ma l’attesa di sei ore negli spogliatoi, l’umidità, il campo comunque scivoloso non l’hanno destabilizzato. Il talento ceco si è affidato al servizio, la freccia che l’ha sostenuto per tutto il torneo, e grazie a quello (e tanto altro) ha chiuso i conti con Sua Maestà della Serbia: 7-6, 7-6, punteggio che appare strettissimo eppure non lo è. Piccoli predestinati crescono, il paradiso non può attendere oltre. Mensik, 19 anni e sei mesi esatti, scala di colpo trenta posizioni issandosi sul sedile numero 24 della classifica mondiale. E dietro di lui, accanto a lui, preme il diciottenne brasiliano Joao Fonseca che ha già dimostrato d’essere pronto per entrare in top ten entro fine anno. Sono tempi duri per la generazione di mezzo – Zverev, Fritz, Medvedev, Rublev, Tsitsipas – schiacciata prima dall’irrompere dalla premiata ditta Sinner & Alcaraz e adesso incalzata da forze ancor più fresche.
La finale è stata comunque molto tirata. Il ceco è uscito meglio dai blocchi filando subito sul 3-0, però il campionissimo ha reagito sfruttando l’unica palla break concessa dall’avversario nell’incontro per pareggiare i conti sul 4-4. Logico al quel punto l’arrivo al fotofinish: Mensik non ha tremato nel jeu décisif, scattando 5-0 e rintuzzando la rincorsa di Novak. Il secondo set è stato quasi un copia-incolla del primo. Ha deciso ancora il tiebreak, e ancora Jakub se l’è messo in tasca lasciando indietro il Djoker senza tentennamenti. Lo score parla di 14 ace piazzati, e 25 ne aveva infilati nella semifinale contro l’americano Fritz: ecce bomber, una mano di pietra da peso massimo. La frase scritta col pennarello sul vetro della telecamera, al termine della sfida, dice tanto della sua ambizione: “First of many”, il primo di tanti trofei. Una promessa e una minaccia. Evidenti i 18 anni e 102 giorni di differenza tra i due: lo scarto rappresenta il divario d’età più ampio nella finale di un Masters 1000. Ed è significativo che Mensik abbia sempre considerato lo sconfitto come riferimento per la carriera: “Non sarei diventato ciò che sono senza l’ispirazione e l’aiuto di Nole, è sempre stato il mio idolo”. E’ stato, appunto, con il verbo coniugato al passato.

Intendiamoci. Djokovic non è diventato d’improvviso un vecchio poster appeso nella cameretta di un bambino che sognava di diventare numero uno. E’ un l’atleta straordinario, altamente competitivo, il cinque del mondo. Altro che arnese sorpassato da chiudere nel ripostiglio: in risposta rimane con Jannik il migliore del circuito, la sua capacità di concentrazione non ha uguali, la resistenza alla fatica è proverbiale e quando innesta il pilota automatico da fondo campo sono guai per tutti. E’ piuttosto l’intensità massima nel gioco a essere calata, com’è fisiologico per un corpo che ha abitato costantemente la battaglia. Si ritrova vulnerabile proprio nei punti di forza abituali del suo immenso bagaglio. Novantanove tornei vinti, il serbo è comunque sempre lì a un passo dal fare cifra tonda. La motivazione è enorme. Agguantare il numero 100 e superarlo è il traguardo dichiarato, l’appuntamento con la storia. Nell’albo d’oro sono solo in due a precederlo: il recordman Jimmy Connors a quota 109 e il maestro Roger Federer con 103 successi. Lui per il momento resta in sala d’aspetto.
Le stagioni passano, il tempo erode anche la roccia. Il 23 luglio 2006, sulla terra rossa olandese di Amersfoors, un promettente diciannovenne venuto da Belgrado batte in finale il cileno Massu. E’ l’epifania di un genio. Poi nel 2008 il primo Slam a Melbourne. Fino al 2018: la vittoria a Cincinnati gli consegna il Career Golden Masters, la conquista di tutti i 1000 del circuito – primato che gli appartiene in solitario. Il quinto Wimbledon nel 2019 è l’ennesima tappa memorabile dell’avventura: la finale più lunga di sempre ai Championships, 4 ore e 57 minuti per sfrattare Federer dal giardino di casa. Incontro finito 13-12 al quinto set, con due match point annullati allo svizzero sull’8-7, 40-15. Il torneo numero 99 è l’ultimo per adesso: l’oro olimpico di Parigi 2024 quando nessuno ci credeva più, l’acuto dentro un’annata disastrosa per uno come lui, il compiersi del Golden Career Slam.

Difficile dire se Djokovic riuscirà a spegnere le cento candeline. La salita è terribilmente ripida, ma c’è un dato statistico che lascia aperta la porta. Nell’anno di grazia 2019 King Roger, nato l’8 agosto 1981, ovvero esattamente all’età attuale di Nole (nato il 22 maggio 1987), vinceva Miami, disputava la finale a Indian Wells, portava a casa gli Atp 500 di Dubai, Halle e Basilea. Il Diavolo lo sa, e non smette di credere all’impresa. Altrimenti che Highlander sarebbe?