E dieci. Chissà come si sente Alex De Minaur battuto da Sinner per la decima volta su altrettante partite, un saldo negativo di trenta set a uno.
Jannik è stato mostruoso, sbrigando la faccenda in un’ora e quarantotto minuti: 6-3, 6-2, 6-1 il punteggio, come se fosse entrato in azione un demolitore. È l’ennesima semifinale Slam sistemata nel suo palmares. Eppure l’aussie s’era detto fiducioso, malgrado la striscia horror dei confronti diretti. Contava sul supporto di un’intero continente, del pubblico nell’arena e delle vecchie glorie che per le occasioni speciali – un po’ come i presidenti degli Stati Uniti – si stringono attorno al giocatore di casa all’Australian Open: Lleyton Hewitt, il suo coach ex numero uno del mondo, l’eterno Tony Roche e il leggendario Rod Laver che dalla California faceva il tifo davanti alla tivù. “Mi sento più vicino al livello di Jannik, cercherò di fare qualcosa mai provata finora per metterlo in difficoltà”, aveva annunciato Demon alla vigilia. Qualunque fosse la novità promessa, nessuno se n’è accorto.
Lo schiacciasassi di San Candido ha concesso le briciole. Se c’erano dei dubbi sul suo stato di salute dopo lo spavento di lunedì, li ha spazzati via in un battito d’ali. Favorito anche dalle condizioni ambientali: giocare con il fresco della sera, temperatura di 18 gradi e poca umidità, non è come trovarsi al mattino sul cemento arroventato dalla calura di Melbourne. Pim pum pam, il tempo di mettere a fuoco il mirino e Wonder Boy ha fatto subito il break sul 3-1. E’ stato impeccabile a partire dal servizio – pochi ace ma percentuali ragguardevoli – per continuare con la velocità supersonica negli scambi da fondo. Alle prese con un boa constrictor che ti stringe alla gola, De Minaur ha tentato di limitare i danni. Con pochissimi frutti. Il fatto è che i suo schemi sono quelli, ed è difficile modificarli più di tanto. Tira piatto e teso, proprio quel che occorre al fenomeno per entrare in palla. Timing eccezionale, combinazione servizio-dritto insostenibile, il rovescio turbo e persino una rasoiata di rovescio al volo: quanta bellezza invece nel gioco di Sinner. Che ha inciso il bisturi su una partita anestetizzata e rarefatta, secondo le regole della sua estetica chirurgia. Così s’è preso il primo set 6-3 quasi stesse svolgendo una seduta d’allenamento.
“Oggi sentivo tutto, ero pronto. Quando trovi una giornata così viene tutto facile”, avrebbe spiegato più tardi la prima testa di serie del torneo. La seconda frazione è filata via ancor più in fretta, sulla scia di un break messo a segno in avvio. Pareva tutto fatto, invece no: basta un piccolo calo e il match può ribaltarsi, ormai l’abbiamo imparato. Jannik per un istante ha abbassato di un decibel il suono della racchetta, offrendo all’australiano l’occasione dell’immediato controbreak. Rischio effettivo, perché De Minaur è pur sempre il numero otto del ranking. E soprattutto è un tipo che sarebbe capace di correre a piedi la Parigi-Dakar senza stancarsi. Premuto il pulsante rosso dell’attenzione, il fuoriclasse italiano ha inquadrato il bersaglio e fatto fuoco: prima palla sparata al centro del rettangolo, servizio a uscire in angolo, perfetta smorzata e pericolo disintegrato. Prova a prenderlo. Il seguito è una trama di altre prodezze e altri break, unito alla sensazione che l’eroe nazionale avesse innestato il pilota automatico. Fino ai tre set point in sequenza: è bastato il primo per l’impietoso 6-2.
Mettiamoci nei panni di De Minaur. L’australiano è un lottatore che non molla mai, possiede la tenacia e l’orgoglio tipico della sua gente, è un giocatore che legge benissimo le situazioni. E ha ottimi colpi, che per sua sfortuna viaggiano mediamente a una velocità inferiore di dieci chilometri orari rispetto a quelli di Sinner. Cilindrate totalmente diverse: quando uno mette la quarta, l’altro ha già innestato la quinta e la sesta. Detto volgarmente, Jannik ha preso Alex a pallate. “Non sapevo più che gare”, ha ammesso scorato. Verosimile che la vittima predestinata abbia pensato alla statistica che lo perseguita, alla frustrazione che sente Monfils quando affronta il carnefice Djokovic: venti confronti diretti, venti sconfitte. Siamo sulla buona strada. Anche perché il cannibale con i capelli rossi ti fa a pezzi e poi ti divora fino all’osso. S’è visto neI terzo set, autentica mattanza chiusa con un terrificante 6-1: difficile vedere a questi livelli una simile superiorità.
Adesso le semifinali. Nella parte basse c’è lo scontro fra Zverev e l’immortale Djocovic, giustiziere di Alcaraz. Invece al campione del mondo tocca Ben Shelton, che ha superato Lorenzo Sonego cancellando il sogno di un derby tricolore. Cinque finora le sfide tra loro, la Volpe Rossa conduce 4-1 dopo aver perso la prima due anni fa a Shangai. “Abbiamo giocato partite dure, è uno di quelli che serve meglio, è mancino, la rotazione della sua palla è diversa da fondo campo. Spero di restare concentrato com’è successo oggi”, ha anticipato Sinner nell’intervista del dopo match. Tutto vero. Ma se Jannik è questo, non c’è trippa per gatti.