Foreman si presentava sul quadrato con le cinture mondiali WBA e WBC e un curriculum di 40 vittorie in 40 incontri, 37 prima del limite. Aveva 25 anni, era alto 193 centimetri e forte come un toro: un colosso da un quintale, i bicipiti da marine più grossi di quelli di Braccio di Ferro. Metteva paura solo a vederselo difronte. I bookmaker e la stampa lo davano strafavorito. Ali aveva 32 anni e pareva vecchio, un po’ più piccolo, un po’ più leggero e meno potente del rivale. Il suo unico titolo attuale era quello di ex campione. Solo Floyd Patterson era riuscito a riprendersi la corona dei pesi massimi dopo averla perduta: l’impresa appariva disperata. Eppure il suo orgoglio smisurato gli aveva imposto di provarci, aveva un appuntamento che metteva in gioco il suo passato, il presente, il futuro.
Il battage pubblicitario lo definì The Rumble in the Jungle, ovvero il rombo nella giungla. Fu questo e tanto di più. Gli esperti lo considerano tuttora il più grande match di sempre e in effetti lo scontro sul ring tra Muhammad Ali e George Foreman rimane un evento irripetibile e ineguagliato, a mezzo secolo esatto dal suo farsi. Rappresentò la dimostrazione pratica dell’assunto di Carol Joyce Oates, scrittrice e drammaturga americana: “La vita è una metafora della boxe”. Non viceversa. Così la notte del 30 ottobre 1974 un capitolo straordinario della storia dello sport e del Novecento, non è un’esagerazione, si manifestò allo Stadio Tata Raphael di Kinshasa in Zaire — oggi Repubblica democratica del Congo. Perché proprio lì, nel cuore dell’Africa nera? E chi erano quei due uomini messi uno contro l’altro dal destino e da un clamoroso business?
Sono sempre i soldi a far girare la ruota. Il promoter Don King, l’organizzatore della sfida, aveva messo in palio una borsa di cinque milioni di dollari a testa, cifra esorbitante che non possedeva. Gli serviva uno sponsor gigantesco per reggere il baraccone. Oppure un mecenate: qualcosa che molto alla lontana gli somigliava si manifestò nella persona del presidente Mobutu — il suo nome completo si traduce: il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo — salito al potere con un golpe. Attraverso corruzione, nepotismo e spregio dei diritti umani, il sanguinario dittatore aveva accumulato una ricchezza sconfinata. Fu lui volere che il match si facesse nella capitale Kinshasa, alias Leopodville sotto il dominio belga, ingolosito dalla notorietà e dal prestigio che avrebbe dato a sé stesso e al Paese piagato da carestia, povertà, analfabetismo e disoccupazione. “Un cadeau de President Mobutu au peuple Zairois et un honneur pur l’homme noir”: un regalo per i neri, recitavano i cartelloni nelle strade.
L’iter fu tormentato. Il tiranno aveva preteso che subito prima del combattimento si svolgesse un memorabile concerto nello stadio, per celebrare ufficialmente la nuova costituzione dello Zaire. Furono reclutate star internazionali del soul come BB King e James Brown, Manu Dibango e Miriam Makeba, Fela Kuti e Hugh Masekela. Ma il piano saltò. In allenamento Foreman si era tagliato sopra un occhio e l’infortunio fece slittare di cinque settimane il match in calendario il 25 settembre. Rimandare lo show sarebbe stato però impossibile: si tenne comunque nella data prevista e per riempire gli spalti vuoti Mobutu ordinò l’ingresso gratuito. Il popolo accorse in massa festante, dando vita alla più grande manifestazione musicale mai tenuta in Africa, malgrado un temporale avesse fatto saltare ripetutamente le casse degli amplificatori.
Nel frattempo i duellanti rifinivano la preparazione: Don King aveva ottenuto che restassero in quel clima caldo e umido per tenerli ancor più stretti all’evento. Mentre però Foreman era prigioniero in una terra che non comprendeva, Ali si sentiva a casa e nelle uscite pubbliche sottolineava il suo ritorno alle radici: l’Africa delle origini. La differenza era palese. Da un lato il nero integrato, lo zio Tom che sventola la bandiera a stelle e strisce, benvisto dai bianchi e considerato un traditore dai colored come lui; dall’altro il ribelle che si era rifiutato di partire per la guerra del Vietnam perché “nessun Vietcong mi ha mai chiamato negro”. Obiettore di coscienza, renitente alla leva, processato, condannato, la licenza di pugile sospesa per oltre tre anni, privato del titolo mondiale, assolto e poi reintegrato: la gente stava dalla parte dell’uomo nato Cassius Marcellus Clay e diventato Muhammad Ali nel 1964 con la conversione all’Islam. Anche per questo l’avrebbero incitato durante il match con un grido di battaglia scandito ritmicamente: “Ali boma ye”, uccidilo.
Ali e Foreman salirono sul quadrato alle quattro e mezza del mattino (le 22,30 negli Stati Uniti), temperatura di 27 gradi, la pioggia cessata per volontà degli Dei qualche minuto prima del gong iniziale. Sugli spalti sessantamila spettatori; più di un miliardo a seguire la diretta televisiva, cioè un quarto della popolazione mondiale di allora. A bordo ring le celebrità di Hollywood facevano il tifo per il mattatore arrogante e magnetico, lo sfidante avvolto nell’aura della leggenda. Dopo uno sprazzo, Ali smise di volare come una farfalla e pungere come un’ape. Si barricò nel suo corpo indifeso appoggiato alle corde, i guantoni a proteggere il volto, offrendosi ai cazzotti micidiali di Foreman che lo martellava incessante ai fianchi. Sembrava una resa, era invece un gioco di prestigio: l’avversario progressivamente perdeva forza, fiaccato dalla sua stessa inutile potenza. “Colpisci più forte, George, non mi fai male”, continuava a irriderlo The Greatest, testa contro testa. Un capolavoro di psicologia, tecnica e alta strategia. Una recita perfetta a uso della folla incredula e ammirata. Finché il momento arrivò.
Ottava ripresa. Dopo aver a lungo incassato i pugni di Foreman, Ali scatta dall’angolo in un lampo: porta il montante sinistro doppiato da un destro d’incontro che è sentenza e colpo di grazia insieme. Il campione crolla al tappeto stordito, l’arbitro lo conta fino a dieci e fa un gesto che significa: basta così. È finita. È il ko. È il trionfo dell’eroe ritrovato. Giovanni Arpino in veste di inviato speciale detta per telefono l’articolo a La Stampa: “Ha vinto la negritudine, ha vinto il criterio dello spettacolo, ha vinto Ali. E la Gran Madre Africa ha divorato Foreman facendogli interpretare il ruolo dell’agnello sacrificale”. Non è l’unico scrittore presente a quello spettacolo epico. Norman Mailer, romanziere, saggista e premio Pulitzer, ne farà uno dei suoi libri più famosi: The Fight. E ventidue anni più tardi il regista Leon Gast avrebbe vinto l’Oscar con il docufilm When we were kings, quando eravamo re. Alla consegna del premio, nel 1996, un’ovazione accoglie i protagonisti che salgono sul palco: Ali davanti, già intaccato dal Parkinson, e George dietro di lui a sostenerlo. Quasi amici.