Settimo titolo dell’anno (il diciassettesimo in carriera), due prove Slam, quattro Master mille, 65 partite vinte e 6 perse, la certezza matematica di concludere il 2024 al primo posto della classifica mondiale. Sinner batte Djokovic 7-6, 6-3 e conquista anche il torneo di Shanghai in questa sua fantastica e interminabile stagione. Basterebbero i numeri per chiuderla qui: Jannik, il più grande tennista della storia italiana, è entrato a 23 anni e due mesi nel club dei campionissimi. Ce n’erano tre oggi in tribuna — Federer, Alcaraz e il suo coach Ferrero — e uno in campo ad applaudirne il gioco fatto di bellezza e di granito, gli elementi naturali delle sue montagne lassù in Alto Adige.
Eppure non sono giorni facili per il ragazzo rosso. Aver perso al fotofinish la finale di Pechino, la settimana scorsa, è il meno rispetto all’ombra del ricorso WADA nascosta dietro il cuore. La vicenda è arcinota, La struttura mondiale antidoping ha presentato appello versus l’archiviazione disposta dall’International tennis integrity agency, rispetto alla contaminazione involontaria e infinitesimale da Clostebol. Una sostanza molto diffusa come antisettico: lo spray si vende senza ricetta in farmacia, ma è inserito nella lista vietata agli atleti. Come si possa giocare e superare ogni ostacolo con un meteorite che incombe sulla testa, è cosa che Jannik e nessun altro sa. Il pubblico se n’è accorto soltanto quando ha stretto con rispetto la mano al glorioso rivale, a fine match: nessuna esultanza, un mezzo sorriso appena accennato, niente di più. Fuoriclasse perfino nel tenersi dentro il turbine delle emozioni.
Il successo su re Djoko, il vecchio zio unico superstite dei Fabulous Three con il ritiro di Nadal, pareggia i conti: quattro successi a testa e palla al centro. Non è un passaggio del testimone, non è la fine di un’era. “Nole non ha debolezze, devi riuscire a sfruttare le pochissime occasioni che può offrirti nel corso della partita. Ci sono momenti in cui devi cercare di crederci, pensare che comunque puoi farcela contro una leggenda del nostro sport”, ha detto cavallerescamente Jan durante la premiazione. Non è stato un omaggio di maniera allo sconfitto. Novak ha mostrato di sé una versione deluxe per l’intero primo set, smarrito di un’incollatura, per cedere progressivamente nel prosieguo alle spallate del golden boy. Senza mai mollare, però. Ha tenuto duro malgrado i 37 anni compiuti a maggio, la fascia elastica per l’intervento al ginocchio destro, il dolore al gluteo sinistro, la terza partita tiratissima di fila, le neanche 18 ore di riposo prima della finale. Arrendendosi all’ultimo punto: un ace dell’azzurro, svolazzo sulla perfezione.
Probabilmente si sarebbe portato a casa il trofeo chiunque si fosse trovato davanti oggi, a eccezione di Jannik. La capacità di resistenza dell’altoatesino è riverberata dallo svolgimento della partita: sotto 6-5, con il serbo capace di vincere a zero tre game consecutivi al servizio, s’è issato fino al tiebreak per poi piazzare lì lo spunto decisivo. Con il passante lungolinea di rovescio ha infilato Djokovic sceso a rete, nel primo punto, strappandogli un minibreak. Quel piccolo prodigio ha rotto l’equilibrio. Il resto è arrivato colpo dopo colpo, passo dopo passo, goccia dopo goccia quasi inevitabilmente.
È andata così, arrivederci alla prossima puntata. La sfida fra i numeri uno, il classico e il nuovo, continua. Perché Nole esce dallo swing cinese con la certezza della ritrovata competitività a livelli altissimi.

È ancora e sempre lui, la superstar con 24 Slam nello zaino: 10 Australian Open, 7 Wimbledon, 4 US Open e 3 Roland Garros. Il vincitore di 7 Finals, 40 Master mille, l’oro ai Giochi di Parigi, la Coppa Davis. L’uomo che ha chiuso per otto volte la stagione da primo del ranking, anche questo un primato assoluto: 428 settimane al vertice. L’atleta che s’è messo in tasca un montepremi di oltre 184 milioni di dollari. Stavolta è stato costretto a rimandare l’appuntamento delle cento vittorie nei tornei Atp (Connors ne vanta 109, Federer 103), ma ci riproverà. Per assurdo che possa sembrare, il tempo è dalla sua parte. I greci usavano due termini diversi per definirne il concetto: Chronos è lo scorrere dei minuti, delle ore, dei giorni; Kairos rappresenta la capacità di fare la cosa giusta al momento opportuno. Si conoscono bene. Chronos bussa sempre più spesso alla porta del Djoker, Kairos apre e gli risponde invariabilmente: non ancora amico, ripassa un’altra volta.
“Hai meritato, il successo, sei stato più bravo di me”, ha detto Djokovic alla fine. Sinner gli somiglia molto. Le partite fra i due sono un gioco di specchi ed entrambi hanno nella forza mentale l’arma che li distingue. Non ingannino i modi di Jan: è anche lui un cannibale, gentile ma pur sempre un cannibale. Mangia gli avversari con dolcezza, a piccoli morsi: aggraziato ed elegante, chiede scusa premurandosi di non aver fatto loro troppo male. Questione di stile. Peccato per gli altri che abbia sempre fame.