Ha messo in fila sul tavolo tutte le sue medaglie, che sono tantissime. Le guarda e le riguarda. Dieci le ha conquistate ai Mondiali (quattro d’oro) e altrettante agli Europei (altri quattro ori). Senza considerare la cascata di titoli tricolori. Sembrano le decorazioni di un generale d’armata, ma Giorgio Minisini è semplicemente il campionissimo italiano del nuoto artistico, quello che comunemente viene definito nuoto sincronizzato. In realtà il verbo coniugato al presente per lui va aggiornato all’istante: Giorgio era il campionissimo, perché ieri ha annunciato il ritiro dall’attività agonistica.

A 28 anni è già un ex, come annota Wikipedia nella scheda: l’ufficializzazione dell’addio tremendamente costoso a una specialità affascinante per chi guarda e dura per quelli che la praticano, cominciata quando era alle elementari. Ma il sogno è andato a sbattere sul muro della discriminazione di genere, accumulata a ogni tappa del percorso e mai smaltita. Il difetto d’inclusione è un concetto che per pessima abitudine vede le donne vittime: stavolta invece il mondo capovolto ha colpito un uomo, il migliore del mondo in piscina, impedendogli di partecipare alle Olimpiadi di Parigi.
Eppure il traguardo era lì a un passo. Il Cio per la prima volta ha ammesso nell’edizione 2024 gli atleti maschi del nuoto artistico, ma in realtà è stata una ipocrita apertura di facciata. Una scatola vuota, una beffa, una presa in giro perché il regolamento ha depennato dal programma le specialità in cui gli uomini gareggiano: il singolo e il doppio misto. Certo, c’è sempre la competizione a squadre. Ma come si fa a inserire all’ultimo momento un elemento nuovo — per di più dell’altro sesso — nei meccanismi collaudati durante mesi di allenamento collegiale di sole donne? Il compito è sembrato impossibile alla commissaria tecnica Patrizia Giallombardo, che è andata avanti per la sua strada. Quella più semplice, verrebbe da dire, quando invece uscire dalla zona di conforto avrebbe avuto un significato straordinario. Rimarcato da Andrea Abodi, ministro per lo sport: “Sono sorpreso, perplesso e dispiaciuto: è una scelta difficile da capire. Rispetto le decisioni tecniche però provo grande rammarico. Si è persa una grande occasione”.
Occasione perduta dalla nostra e dalle altre Nazionali che saranno impegnate all’Acquatics Centre della Ville Lumière: mancheranno all’appello per gli stessi motivi lo spagnolo Fernando Diaz Del Rio e il serbo Ivan Martinovic, atleti famosi a casa loro.
Soprattutto mancherà l’americano Bill May, 45 anni, la stella che ha tracciato la via: clamorosamente messo ai margini dalle medesime procedure. Era un bambino quando la madre, che andava pazza per i film della sirenetta Esther Williams, lo portava con sé in piscina a Syracuse. Al piccolo piaceva nuotare, però si annoiava ad aspettare sugli spalti che terminasse la lezione di sincronizzato della sorella. Prova anche tu, gli disse l’istruttore: diventò la sua ragione di vita. Così si dedicò a scardinare i pregiudizi e le convenzioni, nell’acqua e fuori, dimostrando che un ragazzo poteva riuscire esattamente come le ragazze in quella disciplina. May è stato il simbolo, il faro e l’esempio seguito da Minisini. Che ha sopportato momenti difficilissimi durante il viaggio di crescita.

Il suo libro autobiografico si intitola Il maschio, non c’è bisogno di spiegare perché. Parla di aspettative, bulimia, depressione, bullismo. Scrive: “A scuola mi chiamavano checca o sincrofrocio, per loro ero quello che fa i balletti in vasca con il gel e i brillantini. Un sirenetto. Inutile rispondere che non mi trucco, che porto un normale costume nero senza strass, che non sono gay, che anzi mi piacciono moltissimo le ragazze”. E ancora: “Mangiavo di continuo per saziare la fame di successo e dimenticare la sofferenza, senza accorgermi che il mio corpo stava pagando un prezzo altissimo”.
I genitori hanno aiutato quel figlio d’arte — la madre nuotatrice, il padre giudice internazionale — ad ammorbidire le pressioni, senza farsi condizionare troppo dai fattori esterni. Giorgio ci ha messo del suo, studiando psicologia e mettendo in riga il disordine alimentare. Ora pesa 73 chili, è alto un metro e 76 centimetri, la squadra femminile dell’artistico lo adora ma lui si dichiara fedele alla fidanzata. Per descrivere il rapporto di assoluta parità con le compagne ha raccontato un aneddoto divertente al Corriere della Sera: “Ero nello studio del fisioterapista e quando una delle colleghe ha cominciato a spogliarsi lì, le altre hanno detto: che fai, c’è Minisini… E lei di rimando: vabbè, ma è Giorgio”. Ovvero gli stereotipi colpiti e affondati.
Non ha alzato la voce, non ha denunciato complotti, non ha condannato chi l’ha cancellato dalla lista olimpica in spregio alla parità di genere. È stato esemplare, come lo è sempre (stato) in vasca. Però c’è un limite e il giovanotto romano l’ha raggiunto. Facendosi da parte ha chiuso il cerchio, o meglio i cinque cerchi. “Volevo talmente le Olimpiadi che ne ho fatta un’ossessione. Sono stanco anche del ruolo pubblico che mi sono accollato, del resto bisognava combattere perché le cose non cadono dall’alto. Meglio smettere ora, con l’orgoglio di aver lavorato perché fra quattro anni a Los Angeles i ragazzi partecipino davvero alle gare di nuoto artistico”.
La frase finale fa riflettere: “Ho sempre trovato assurdo che una disciplina continuasse a tenere fuori metà del genere umano, rispetto a quanto avrebbe guadagnato”. La morale è che uomini e donne possono — devono — fare squadra assieme: l’atletica lo dimostra, il nuoto in corsia e in acque libere lo dimostra. I parrucconi del vecchio mondo, ultramedagliati campioni di stereotipi, prima o poi capiranno se non vogliono scomparire.