“Words don’t come easy”, le parole non vengono facili. Lorenzo Musetti è felice nell’intervista dopo l’esame di laurea a i, il tempio del tennis, superato a pieni voti con la lode e il bacio accademico. Sono serviti cinque set per battere il californiano Taylor Fritz e approdare alla semifinale del torneo più bello che esista, ma il successo è indiscutibile: 3-6, 7-6, 6-2, 3-6, 6-1 recita lo score.
E’ stata una grande sorpresa: i bookmaker inglesi, che c’azzeccano sempre, pagavano quattro volte la posta la vittoria dell’italiano. Ma soprattutto è stata un’autentica epifania. Il carrarino, famoso nel circuito per il suo tennis così simile a un’opera d’arte, non è temuto dai rivali per quanto il suo enorme valore richiederebbe.
Perché gli capita a volte di cacciarsi nella buca da solo, senza saperne uscire. Il fatto è che talento, solidità e concretezza non sempre vanno d’accordo, specie quando hai 22 anni e porti sulle spalle una montagna di attese. E se da minorenne sei stato campione junior agli Open d’Australia, se hai riconoscibili le stimmate del fuoriclasse, se tutti si aspettano da te il massimo, beh non è semplice. Fino a pochi mesi fa Musetti, pur a fronte di ottimi risultati – intendiamoci: è stato 15 del ranking, mica pizza e fichi – ha sofferto di una sindrome che affligge sovente i migliori: l’ossessione di essere perfetto. Non perdonarsi gli errori è una condanna, uscire dal buio significa capire che puoi farcela anche quando i capolavori, come le parole, non vengono facili. E lui sul campo numero uno a Church Road di bellezza ne ha tirata fuori, eccome.
Non aveva cominciato bene, vittima della tensione sua abituale compagna di viaggio. Ha avuto proprio in apertura due occasioni per mettere il naso avanti, non è riuscito a sfruttarle e come accade nel tennis (e non solo) gli è capitato di subire il break.
Errore fatale davanti a un bomber stile Fritz, americano tipico perché ha un servizio che spacca e insieme atipico perché sa fare tutto per bene. Il repertorio completo in ogni fondamentale l’ha issato lo scorso anno al quinto posto della classifica mondiale, dopo aver superato un bel po’ di ostacoli personali e sportivi. Figlio d’arte – il padre Guy fa il coach, la madre Kathy May vanta un curriculum da top ten – ha dovuto confrontarsi con il peso delle aspettative. Come Musetti. E se Lorenzo è andato a vivere con la compagna Veronica e a marzo è diventato papà di Ludovico, il ragazzone statunitense si è sposato a diciott’anni, è divorziato, ha un figlio che vede sullo schermo del computer perché la vita di un giocatore è saltare da un aereo all’altro. Insomma se quelli di prima fascia guadagnano tanto, qualcuno tantissimo, c’è comunque un prezzo alto da pagare. E serve tenacia per non mollare la presa.
“Diventare padre l’ha cambiato”, dice Veronica del suo Lollo. In un altro momento, dopo quel primo set smarrito in 36 minuti, Musetti si sarebbe lasciato andare alle recriminazioni e ai soliloqui, cercando una sponda impossibile nel suo angolo e sgranando ad alta voce il calendario dei santi. Avrebbe perso il match in un attimo, come lasciava presagire il break subìto in apertura della seconda partita. Invece no. Clic, scatta l’interruttore. Un urlo sottolinea la reazione e il controbreak immediato. Si ricomincia, anzi si comincia. E’ il momento che fa girare l’incontro.
La procedura di lancio prevede la verifica della strumentazione di bordo. L’italiano spinge i bottoni: servizio, dritto, il sublime rovescio a una mano, risposta, smorzata. Funziona tutto: accendere i motori. Lorenzo scappa avanti, va a servire per il set, affoga in un game che sa di dissipazione, perde la chance, non si smarrisce e arpiona il tie break. Lì è svelto, intelligente, coraggioso: passa l’ultimo treno e lo prende al volo, agganciato al predellino. Uno a uno e palla al centro.
Per spiegare il terzo set servirebbe Norman Mailer. Lui avrebbe descritto l’incantesimo di Musetti paragonandolo alla trappola di Ali, tesa sotto i piedi di Foreman nella notte di Kinshasa: il volo dell’ape che punge il colosso e lo mette a terra. Al tappeto è finito senza capire né come né perché il povero Fritz, sballottato sull’erba malgrado il suo metro e novantasei e la potenza inutile da peso massimo.
Muso ha inventato, creato, dipinto, scolpito, ricamato. Mai due colpi uguali, rovesci in back, lungolinea coperti e palle corte, lob, volate e mezze volate, accelerazioni: lampi che abbagliano. Nel box reale ha applaudito perfino Camilla, regina consorte, sorpresa dalle telecamere a fare la ola.
C’è stato del sadismo nella demolizione sistematica dell’avversario. Lorenzo è entrato nella testa dell’americano, prosciugandolo di ogni risorsa quasi con dolcezza, a mezza luce, accendendo e spegnendo l’abat-jour. Una favola. Ma Taylor è un campione, si è ribellato alla sconfitta e ha messo fuori la testa dalla trincea. Attaccando alla disperata e sparando con il bazooka.
Sull’orlo del burrone di un ennesimo break, ha trovato la forza di alzare l’asticella strappando il servizio all’azzurro, che pareva ormai avviato al trionfo. Nel gioco del diavolo basta un niente e si torna alla casella di partenza: sarebbe stato il quinto set a decidere.
Fritz ne aveva portato a casa uno faticosissimo nel turno precedente, eliminando il tedesco Zverev dopo una maratona senza respiro: era lui il favorito, a quel punto della sfida. Senonché. Senonché è accaduto quel che poche volte è dato vedere: Musetti ha cominciato a volteggiare sulle nuvole, dando il via a uno spettacoloso Gran Varietà. “Ho tenuto il meglio per la fine”, avrebbe sorriso poi in sala stampa. Il sipario si è chiuso su un 6-1 conclusivo che dice tutto e anche di più.
E il pensiero corre già a venerdì: l’avversario sarà l’immortale Djokovic, approdato in semifinale senza spendere un euro di fatica per il ritiro dell’australiano De Minaur. Un mese fa, al Roland Garros, Lorenzo è andato vicinissimo a battere il serbo. “Ci conosciamo bene, Nole è una leggenda e Wimbledon è casa sua. Però io sono ambizioso e amo le sfide”. Non pare vero, ma Musetti c’è. Finalmente c’è. E non se ne andrà più