Una preghiera: adesso non facciamo i soliti italiani. Perché ci sarà sicuramente qualcuno, magari sul dannatissimo web, che parlerà di delusione, di bluff, di braccino nei momenti che contano, di un numero uno che non sarebbe mai diventato tale senza il ritiro di Djokovic. Niente di tutto questo. La realtà è molto diversa: Sinner ha perso contro Carlos Alcaraz e non giocherà la finale del Roland Garros, eppure anche stavolta ha messo in campo tutto quel che aveva. Del resto, coraggio e rifiuto della resa ce li ha stampati nel DNA. Ma era impossibile chiedergli di più, a capo di quattro ore abbondanti di lotta durissima in condizioni di inferiorità fisica contro un altro baby prodigio, arrivato peraltro alla gloria prima del nostro. Jannik ha pagato le tre settimane di sosta obbligata per l’infortunio all’anca, precedente allo Slam francese, che gli ha inoculato il germe del dubbio. Costringendolo a una immobilità prolungata, che in nessuno sport di vertice puoi permetterti ― quattro chili di peso perduti, massa muscolare affievolita, forza e resistenza da ricostruire in fretta senza averne il tempo.
Non sono facili giustificazioni per uno stop che comunque brucia: lo spagnolo ha vinto perché è bravissimo, perché l’ha meritato e perché ha saputo anche lui uscire da un problema al braccio che l’aveva limitato negli allenamenti. Il tennis è così, spietato e a volte bugiardo. La frase che campeggia a caratteri cubitali sullo stadio di Parigi ― Victory belongs to the most tenacious, la vittoria arride al più tenace ― non rende giustizia al giovane con i capelli rossi che ha fatto innamorare l’Italia. Lui, il cuore, ce l’ha eccome. Senza quello non avrebbe vinto, perso, vinto di nuovo, pareggiato e poi definitivamente perso una partita che ha cambiato padrone almeno quattro volte. Jannik era consapevole che arrivare al quinto set sarebbe stato un azzardo da evitare come la peste, con il serbatoio della benzina in riserva. Eppure ci ha provato fino in fondo malgrado i crampi alla mano destra e il cuore in affanno. Subito dopo l’abbraccio con l’amico-rivale, per un attimo la sua maschera Poker Face ha lasciato intravedere l’amarezza e la delusione. E forse la rabbia per l’occasione perduta.
A chi di solito non mastica tennis ― molti si sono appassionati al gioco sull’onda del ragazzo meraviglia ― va spiegato a questo punto che cos’è un match al limite dei cinque set sulla terra rossa. Uccidere il leone di Nemea e portarne la pelle come trofeo, ammazzare l’idra di Lema, catturare la cerva di Cerimea, ingabbiare il cinghiale di Erimanto, ripulire in un giorno le stalle di Augia, disperdere gli uccelli del lago Stinfalo, imprigionare il toro di Creta, rubare le cavalle di Diomede, impossessarsi della cintura di Ippolita, rubare i buoi di Gerione, sottrarre i pomi d’oro alle Esperidi, portare a Micene vivo Cerbero, il cane a tre teste: queste sono le mitologiche dodici fatiche di Ercole. A cui va aggiunta la tredicesima, la più terribile. Consiste nel conquistare lo scalpo dell’avversario dopo una maratona nel sole ardente, armato soltanto di una racchetta, sopra un terreno polveroso e infido fatto di mattone tritato. Insomma, chi la spunta è un supereroe. Viva Alcaraz che ce l’ha fatta, viva Sinner che ce la farà la prossima volta.
Alla fine di una giornata estenuante restano negli occhi le montagne russe che raccontano l’incontro. L’avvio travolgente di Sinner, il ritorno di Alcaraz, la crisi del nostro ragazzo in debito d’energia, l’improvviso colpo di coda e il sorpasso, il piacere del gioco ritrovato dall’altro con una colpo passante da fantascienza. E soprattutto lo smash buttato via da Jannik a campo aperto, svolta psicologica nel braccio di ferro. Restano i cori, le bandiere e i cartelli per l’uno e per l’altro, accomunati dal comune affetto del pubblico. Restano i volti tesi nei box dei protagonisti, con gli allenatori a suggerire tattiche e distribuire incitamenti. Resta l’immagine dei genitori Alcaraz in tribuna, sorridenti sotto le pagliette mentre agitano i ventagli contro la calura, manco fossero a una gita e non a una sfida all’ultimo sangue. E il pensiero corre ad Hanspeter e Siglinde Sinner, ai fornelli nel rifugio di montagna in Val Fiscalina, manco il loro benedetto figliolo stesse giocando un’amichevole qualunque. A ciascuno il suo.
Un’altra preghiera: non abbattiamoci più di tanto. La rivalità fra i due campioni, che sono il presente e il futuro del tennis, è appena alla nona puntata e Carlitos è avanti 5-4. Era stato lui a infliggere a Jannik la sconfitta più dolorosa di una carriera appena agli inizi: Open Usa del 2022, quarti di finale, l’altoatesino battuto al maledetto quinto set dopo aver sprecato un match point. Quel colpo al fegato l’ha messo al tappeto: ci sono voluti mesi per rialzarsi, e per diventare ancora più forte. Fino ad arrivare, è cronaca freschissima più che storia, in vetta al ranking mondiale dove resta a giusta ragione malgrado la battuta d’arresto di oggi. In attesa che venga luglio e il circo si trasferisca a Wimbledon: è lì che Sinner cercherà la sua rivincita, la prima volta sull’erba.