È successo. Dopo cinque secoli di tennis, un italiano è diventato il numero uno del mondo: si chiama Jannik Sinner, è nato a Sesto Pusteria, ha i capelli rossi ed è un ventiduenne come non ce ne sono altri. È successo. Il ragazzo meraviglia stava lottando sul campo centrale del Roland Garros a Parigi contro il bulgaro Dimitrov, cercando di guadagnare la semifinale del torneo, quando all’improvviso una corrente elettrica ha percorso lo stadio. È stata una ola emotiva, propagata in un attimo tra gli spettatori: Novak Djokovic, il cannibale che ha vinto più di chiunque altro, si era appena ritirato per un infortunio e la stanchezza di due match durati dieci ore di battaglia crudele. È successo. La bandiera tricolore sventola sul pennone più alto, bianca rossa e verde come il vessillo piantato nel 1954 da Compagnoni e Lacedelli in cima al K2. A settant’anni da quell’impresa, il meccanismo delle classifiche ha issato il magnifico giovanotto altoatesino sulla vetta del tennis. Retorica? Può darsi, ma che importa.
È successo. Ed è un fatto storico, senza esagerazioni. Inutile cercare nelle pergamene i resoconti delle corti rinascimentali – “Il gioco di racchetta è ai letterati il più conveniente”, scriveva nel 1555 il filosofo Antonio Scaino da Salò che ha tracciato i rudimenti del gioco. Inutile consultare gli archivi a partire dal brevetto del Lawn Tennis datato 1874, ovvero le regole codificate dal maggiore inglese Walter Clopton Wingfield. Mai nessun italiano prima di lui è arrivato al primato assoluto planetario. C’erano andati vicino Giorgio De Stefani negli anni ’30, Nicola Pietrangeli negli anni ’60, Adriano Panatta negli anni ’70. Campioni appartenuti alla preistoria oltreché alla storia, epoche geologiche remote dinanzi alla velocità dell’era digiltale. Sinner il fenomeno ha fatto più di loro e più di tutti.
Nell’intervista del dopo partita, a bordo campo, l’interlocutore si era tenuta in tasca fino all’ultimo la domanda del giorno: “Voglio dirti che da lunedì sarai il numero uno del mondo, quali sono i tuoi sentimenti?”. La risposta esemplare, una volta espresso il rammarico per la sfortuna del rivale Djokovic scalzato, dà il senso della maturità di un fuoriclasse dentro e fuori dal campo: “Arrivare lì è il sogno di ogni bambino quando comincia questo sport. Esserci riuscito è un grande orgoglio, un momento speciale che sono felice di dividere con la mia squadra, la gente che ha fatto il tifo oggi qui in tribuna e gli italiani che mi seguono tantissimi da casa”.
Perfetto, come al solito, con in più un velo di commozione e gli occhi umidi. Perché Jannik, l’italiano atipico, il figlio che ogni famiglia sente suo, è semplicemente la perfezione. Anche quando sbaglia, perché – dice saggiamente – si impara più dalle sconfitte. Mai un gesto fuori posto, mai una parola sopra le righe. Sempre attento a quello che lo circonda, ai più piccoli che gli chiedono l’autografo, ai disabili con cui scambia volentieri due palle seduto anche lui in carrozzina. Avesse l’età giusta sarebbe il candidato ideale a succedere al presidente Mattarella, o in subordine a fare il ministro dello sport. Per fortuna non è così. Ci aspettiamo che continui a giocare per mille anni ancora, che vinca tanti Slam quanti ne hanno messi insieme Roger (Federer), Rafa (Nadal), Nole (il Djoker) nella loro straordinaria carriera. È un freddo, dicono di lui, fatto di granito come le montagne da cui è sceso. In realtà ha il fuoco dentro ma ha imparato durante la partita a nascondere le emozioni: “Sento anch’io l’ansia dei momenti decisivi, ma non voglio che gli avversari se ne accorgano. E considero la pressione un privilegio”.
Eppure ieri pomeriggio – almeno per un momento – il pel di carota ha smarrito il suo abituale controllo. Era andato a servire per chiudere il match ma la scossa sugli spalti, il boato, un cenno fugace dal suo box, l’urlo di un supporter gli hanno fatto capire quel che era già nell’aria. Numero uno, traguardo raggiunto. E contemporaneamente quattro punti persi, game in malora, partita tornata in discussione. E adesso? Poker Face si è rimesso la maschera, ha piazzato tre o quattro colpi vincenti ed è corso verso la reta a complimentarsi con lo sconfitto di turno. E’ successo. Ha vissuto il giorno perfetto e stasera cercherà di non pensare a ciò che è successo, dopo la telefonata ai genitori che gestiscono un rifugio in Val Pusteria. Andrà al ristorante con uno sguardo alla tivù per gli altri risultati, poi relax, cellulare spento e infine un buon sonno perché “il riposo è essenziale a recuperare”. C’è un lavoro da fare, Jannik lo sa bene: gli esami non finiscono mai ed è bello allenarsi sognando di diventare un campione. Giovedì lo aspetta la semifinale del Roland Garros, il numero uno non può permettersi di perdere. Stavolta meno che mai.