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Quella partita: quando il Cile di Pinochet giocò da solo nello stadio della barbarie

E di come il mitico Carlos Caszely lottò a suo modo contro la dittatura

Massimo CutòbyMassimo Cutò
Quella partita: quando il Cile di Pinochet giocò da solo nello stadio della barbarie

Il gol di Francisco Valdes, capitano del Cile, nella partita contro nessuno del 21 novembre 1973 a Santiago. Sullo sfondo Carlos Caszely / Ansa

Time: 4 mins read

La vergogna è il colore del sangue degli innocenti. È una squadra — la Roja — costretta a giocare contro nessuno. È una cravatta scarlatta sventolata in faccia a un dittatore. È la bandiera rossa ammainata l’11 settembre 1973, all’ultimo piano del palazzo della Moneda a Santiago del Cile, mentre gli aerei militari bombardano il progresso di un popolo. Il presidente Salvador Allende, con l’elmetto in testa e gli occhiali appannati dalla polvere, è l’immagine di un uomo ucciso dalla violenza che non gli appartiene. La democrazia ha perso. Il medico prestato alla politica per servire il suo Paese morirà di lì a poco, nel prologo di una mattanza infinita. L’ultimo appello pronunciato alla radio, asserragliato nello studio, è carico di nobiltà e lucida preveggenza: “Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore”. Allende aveva rappresentato la speranza dei giovani, guidando il primo governo marxista dell’America Latina verso la riforma sociale. Non gli fu perdonato.

L’Estadio Nacional presidiato dai militari / Reuters

Avviene tutto nel giro di qualche ora. Il presidente è la vittima simbolica di un colpo di Stato che per 15 anni consegnerà il comando al generale Auguro Pinochet, volto truce della repressione. Il potere autoritario è spietato e non conosce mezze misure. L’Estadio Nacional diventa un enorme campo di concentramento per detenuti politici dove vengono interrogati, torturati, uccisi o fatti sparire nel nulla migliaia e migliaia di oppositori. Molte sono le donne stuprate dai militari addetti alla sorveglianza con il fucile a tracolla. Una barriera di filo spinato divide l’erba dagli spalti, nei sotterranei la barbarie è un film dell’orrore. Eppure, incredibilmente, c’è chi pretende che in quel lugubre catino si debba giocare a pallone. Come? E soprattutto: perché?

Il calcio globale sta vivendo le fasi decisive delle qualificazioni al Mondiale che nel ’74 si disputerà in Germania. Il regolamento vuole che si scontrino in due gare da dentro o fuori la vincente del gruppo 9 europeo e la prima del girone 3 sudamericano. Ovvero l’Unione Sovietica e il Cile, i comunisti opposti ai golpisti. Quando il 26 settembre, a telecamere spente, si svolge il primo atto dello spareggio nello Stadio Lenin di Mosca, in Cile la libertà è già un ricordo perso nella tenebra. Finisce zero a zero, tutto è rimandato al match di ritorno del 21 novembre. La decisione di Breznev, segretario generale del Pcus, è però una sentenza senza appello: la partita va disputata in campo neutro o niente.

È a questo punto che entra in gioco la Fifa. Gli osservatori della federazione internazionale volano a Santiago vestiti di molti timori, danno uno sguardo troppo rapido alle tribune, ignorano la pancia dello stadio e scrivono sul rapporto ufficiale: la situazione è tranquilla, via libera. La squadra dell’Urss resta in patria, il Cile vincerà a tavolino. Senonché a Pinochet questo finale non piace proprio. Il dittatore vuole festeggiare il suo trionfo politico con le gradinate colme di spettatori esultanti. Escogita così una soluzione surreale con la connivenza dei pezzi grossi del calcio: partita dev’essere e partita sarà. Anche senza gli avversari.

Nel più grande teatro dell’assurdo mai visto va in scena una tragica farsa. La formazione cilena scende in campo contro 11 invisibili, l’arbitro — anche lui di Santiago — fischia l’avvio e si comincia. Spetta ai due giocatori più rappresentativi la parte peggiore: Francisco Valdes, il capitano, e Carlos Caszely, il cannoniere. Sono entrambi militanti di sinistra, e come tali considerano ripugnante l’ordine ricevuto. Eppure sono obbligati a eseguirlo. Si scambiano lentamente la palla, avanzano verso l’area sguarnita, tentennano incerti finché arrivano a tre metri dalla porta vuota. Il compito di segnare toccherebbe a Caszely, l’idolo del Colo Colo — la Juventus cilena — soprannominato El Rey del metro cuadrado per la capacità di trasformare in gol qualsiasi pallone gli passi sotto il naso. Invece lui non ce la fa: restituisce la sfera al compagno che la spinge nella rete. Cinquanta secondi sono bastati per l’uno a zero, per il successo cruciale, per la qualificazione al Campionato del Mondo. Per umiliare una nazione oppressa.

Sul tabellone dello stadio il punteggio di 1-0: l’Urss è sconfitta / archivio Gazzetta dello Sport

Sei mesi dopo, alla partenza per la Germania, Caszely è l’unico a evitare di stringere la mano a Pinochet che non dimenticherà l’affronto. La spedizione si rivela un fallimento: i cileni sono nel girone dei padroni di casa e perdono 1-0 in inferiorità numerica, perché proprio il centravanti si fa cacciare per un brutto fallo. Quando l’arbitro gli mostra il cartellino rosso — è la prima volta nella storia dei Mondiali — quel colore è un segno del destino. La squadra sudamericana pareggia poi con la modesta Australia e con la Ddr e torna mestamente a casa.

La stampa di Stato mette sotto accusa l’uomo che ha lasciato in dieci i compagni: tutta colpa di quel comunista. È il capro espiatorio della disfatta, che gli costa cinque anni di esilio dalla Nazionale. Ciò malgrado non si piega all’autorità. In un’occasione ufficiale Caszely si trova faccia a faccia con Pinochet, ostenta una cravatta rossa e al generale che lo apostrofa replica da vero hombre vertical: “Presidente, questa la porto sempre sul cuore”. L’altro fa il gesto delle forbici con le dita, ma la gente ama Carlos e la squadra ha bisogno di lui. El Rey viene richiamato, trascina il Cile ai Mondiali spagnoli dell’82, però sbaglia il rigore decisivo contro l’Austria firmando di fatto un’altra eliminazione. Otto anni dopo. E come allora i giornalisti di regime lo accusano di alto tradimento: l’ha fatto apposta, è stata la sua rivincita.

Carlos Caszely, il centravanti cileno, con la maglia rossa della Nazionale / sito La Roja

Non era vero, un uomo di sport non tradisce. Ma se pure fosse stato così, avrebbe avuto valide ragioni: una, la più feroce, emerge pubblicamente nel 1988. Il Cile va al referendum, il quesito è fra Pinochet e un nuovo corso democratico. Incerto l’esito del voto. Caszely ha appeso maglia e scarpette al chiodo ma è sempre popolarissimo. Lo invitano a registrare uno spot per la sinistra e si presenta sottobraccio a una signora che racconta in tivù la sua storia: “Sono stata sequestrata e portata, bendata, in un luogo sconosciuto dove mi hanno torturata e violentata brutalmente. Le vessazioni sono state così tante che non le ho nemmeno raccontate tutte per rispetto dei miei figli, di mio marito, della mia famiglia e di me stessa”. La donna si chiama Olga Garrido e il re del metro quadro è suo figlio. Insieme, quel giorno, cancellano la partita dell’infamia giocata davanti a 11 fantasmi. E insieme segnano il gol della vittoria contro il fantasma di un dittatore sconfitto.

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Massimo Cutò

Massimo Cutò

Giornalista, classe 1957, ha svolto tutta la sua carriera tra Resto del Carlino e Quotidiano Nazionale. È nato a Pescara ma vive e lavora a Bologna da molti anni. Ogni volta che arriva in piazza Maggiore non si rassegna a una domanda senza risposta: perché qui non c'è il mare?

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