Dal rilancio – troppo pompato – del calcio italiano allo zero su tre nelle finali delle coppe europee. Ora chi per settimane ha celebrato il calcio italico per i percorsi italiani in Europa dovrebbe quantomeno inserire una brusca retromarcia, ma la verità è un’altra: il calcio italiano non era rinato prima grazie alle tre finali e, paradossalmente, le tre sconfitte nelle finali di Champions League, Europa League e Conference League di Inter, Roma e Fiorentina fanno uscire comunque a testa alta – per quanto conti in una finale, cioè pochino – le tre protagoniste dando un’immagine del nostro calcio comunque competitiva.
A conti fatti, l’Inter ha fatto partita patta – se non migliore – contro il Manchester City di Pep Guardiola, che sulla carta pareva irresistibile: non è stato così. Gli inglesi dopo vagonate di milioni di sterline investite negli anni hanno alzato la Coppa dalle grandi orecchie con un gran gol di Rodri, nonostante un Haaland sotto tono (ma è comunque meglio di “spazio” là davanti, caro Pep) e un De Bruyne andato k.o. nel primo tempo. Hanno vinto anche ringraziando un pizzico di buona sorte sulla traversa di Dimarco e i disastri sotto porta di Lukaku che forse quella finale avrebbe meritato di giocarla dal primo minuto vista la forma delle ultime settimane, ma che si è rivelato la zavorra interista nell’assalto al pareggio. Un plauso se lo merita senza dubbio Simone Inzaghi, allenatore che non mi fa impazzire e che non so se vincerà mai un campionato ma nella preparazione di un confronto di coppa, che sia doppio o in gara secca, raramente sbaglia: nella finale di Istanbul ha “normalizzato” il City degli sceicchi che spende e spande – che col successo di Istanbul ha chiuso il “Treble”, il Triplete british – e non è certo una cosa banale.

Tre giorni prima dell’Inter, l’amarezza in finale era toccata alla Fiorentina di Italiano battuta al 90’ in Conference League dal West Ham: paradosso curioso, beccare il gol decisivo di Bowen con la difesa così alta. Non dovrebbe mai succedere negli ultimi minuti di una finale, ma certi atteggiamenti tattici sono poi quelli che hanno portato i viola di Italiano fin lì dopo un biennio di notevole crescita. Un ultimo atto a Praga molto particolare, in cui la Fiorentina ha pure rischiato la vittoria a tavolino per l’oggetto che ha colpito nel primo tempo Biraghi (poi protagonista in negativo sui due gol del West Ham: ci sarebbe voluto il mitologico Carmando, fisioterapista del Napoli che nel 1990 disse ad Alemao di stare giù dopo essere stato colpito da una moneta a Bergamo) e in cui dopo l’1-1 pareva avere la partita in mano. Invece un mix di errori – tremendo quello di Mandragora, piattone aperto sul piede forte e porta mancata – e distrazioni difensive ha portato la Fiorentina al secondo k.o. in altrettante finali tra Conference e Coppa Italia: resta una signora stagione per la squadra di Rocco Commisso, a cui però è mancata la ciliegina sulla torta.
Ad aprire il Triplete al contrario era stata la Roma, per certi versi quella andata più vicina ad alzare il trofeo: avversario tosto – il Siviglia – e arbitro scarsissimo, l’inglese Taylor, che ha pesantemente condizionato in negativo la finale, specie per le mancate espulsioni di Rakitic e Lamela. Il gol di Dybala non è bastato: l’autorete di Mancini ha pareggiato i conti, poi le parate di Bono e le condizioni di forma molto precarie di diversi giallorossi al termine di una stagione costellata di infortuni hanno fatto il resto. Ai rigori c’è stato solo il Siviglia, con i rigoristi di Mourinho ormai in panchina tra acciacchi, problemi e fatica: fanno festa gli andalusi, ormai specialisti dell’Europa League visti i sette trionfi.
Quindi, tutto da buttare? No, come prima non era rinato il calcio italiano grazie ai percorsi europei di club con tanti giocatori stranieri e a volte facilitati – specie in Champions – da sorteggi benevoli, ora non c’è da fasciarsi la testa. Anzi, nelle tre finali il nostro calcio si è persino difeso meglio del previsto se pensiamo che un club italiano non vince la Champions dal 2010 con l’Inter (in mezzo, due finali perse dalla Juventus) e che l’ultima italiana ad alzare l’Europa League – era ancora la Coppa Uefa – fu il Parma di Malesani nel 1999, con l’Inter nel 2020 unica altra finalista prima della Roma di quest’anno. Nelle ultime affermazioni italiane nelle coppe europee (Champions all’Inter nel 2010, Roma in Conference lo scorso anno) c’è sempre la firma di Josè Mourinho, tecnico supercriticato ma che alla fine è riuscito a dare un’identità europea anche a questa Roma piena di acciacchi così come di forza di volontà.

Per parlare di rinascita del calcio italiano, però, serve altro: più continuità nelle coppe (non basta un solo anno di finali, col dubbio che sia episodico), più italiani in campo ad alto livello, i consueti atavici problemi del movimento italiano – stadi e debiti generati dal sistema calcio in primis – da risolvere.
Piuttosto, questi buoni percorsi europei siano un punto di partenza per gli anni a venire, per cesellare progetti, per prendere fiducia, per riaffidarsi (Napoli docet, con il suo tricolore) alla competenza invece dei soliti malcostumi come giri di procuratori amici e plusvalenze gonfiate, nonostante certi patteggiamenti che rischiano di creare pericolosissimi precedenti. E magari un segnale – vero – di rinascita del calcio italiano sia l’ottimo mondiale Under 20 giocato dagli azzurri del ct Carmine Nunziata: anche in quel caso fatalmente è mancata la ciliegina all’atto conclusivo, con la sconfitta in finale per 1-0 contro l’Uruguay (sudamericani indemoniati sul piano del ritmo, risultato giusto), ma gli azzurrini sono arrivati per la prima volta nella storia alla finalissima e hanno mostrato un buon talento generale. Ora la speranza è che abbiano il giusto spazio crescendo.