Novembre 1975, palasport di Bologna. Sul campo da tennis che ricopre il parquet del basket c’è Adriano Panatta. Il suo avversario è Bob Hewitt, formidabile doppista, australiano naturalizzato sudafricano: un tipo da prendere con le molle, corpulento, calvo, rissoso e irascibile, faccia da filibusta. Dopo uno scambio serrato, Hewitt conquista il punto, ma l’arbitro ordina di rigiocarlo. Il pubblico trattiene il fiato mentre il pirata punta dritto al seggiolone. Prima però che accada l’irreparabile, il suo sguardo si dirige verso un angolo della tribuna. In quel momento un signore distinto fa un cenno con l’indice teso, indicando il soffitto: una delle luci del palasport si è spenta durante il gioco, giusto ripetere il punto. Hewitt fa marcia indietro senza dire parola e torna a servire, la tempesta è stata evitata per un soffio.
L’autore di quel piccolo gesto si chiamava Arthur Ashe ed è stato il più grande tennista afroamericano: capace di vincere tre tornei Slam, impresa riuscita a nessun altro uomo di colore. Ashe è morto il 6 febbraio 1993 lasciando un’impronta indelebile del suo soave quanto determinante e purtroppo fugace passaggio sulla terra. Aveva 49 anni quando se l’è portato via una polmonite, complicanza dell’Aids contratto durante una trasfusione di sangue infetto susseguente a un’operazione al cuore. Quasi una maledizione di famiglia, visto che il piccolo Arthur aveva perso precocemente la madre vittima di un intervento chirurgico sbagliato. A occuparsi di lui, avviandolo al tennis, era stato così il padre poliziotto, custode in un impianto sportivo di Richmond, Virginia, riservato ai neri. Quel ragazzino mingherlino dai capelli crespi e il sorriso dolce pareva promettente, tanto da finire nelle mani di Robert Johnson: il coach che aveva forgiato Althea Gibson, un mito, prima donna con la pelle scura ad affermarsi come numero uno del tennis.
Quell’incontro fu decisivo. “Ero pelle e ossa, con un racchettone più grande di me. Robert dovette credere che fossi affamato, così mi spedì subito in cucina”, avrebbe raccontato Ashe molto tempo dopo. Johnson plasmò il suo gioco e la sua crescita umana, temprandolo per superare le difficoltà di un ambiente profondamente razzista, in un momento storico in cui la segregazione razziale era ancora la normalità. La scalata era tutt’altro che facile. Nel ’63, ventenne, fu il primo afroamericano a diventare campione nazionale juniores. Primo a entrare nella squadra statunitense di Coppa Davis. E primo a vincere gli Us Open nell’era dei professionisti. Primo in tutto, sempre. Grazie alla grande cultura, lo studio ininterrotto, la capacità di impegnarsi allo spasimo nel gioco e contemporaneamente laurearsi in scienze delle finanze e diventare paladino dei diritti civili delle minoranze. Uno come lui non s’era mai visto. Campione di etica e di sport. Dedito alla disciplina, al lavoro, al rispetto dell’altro. In campo e fuori elegantissimo, irreprensibile, completo, votato all’attacco, leale. Ieratico. Un’icona di stile senza mai rinunciare alla battaglia.

Nel ’68 il governo sudafricano gli impedì di partecipare al torneo di Johannesburg. Ashe rispose avviando una campagna coinvolgente contro l’apartheid, denunciandone gli orrori e chiedendo l’espulsione dal circuito della federazione segregazionista. Il suo impegno fu tale che nel ’90 Mandela, appena uscito dal carcere, volle incontrarlo e ringraziarlo per quanto aveva saputo fare. Fu un eroe integralmente anti eroe. “L’autentico eroismo – è una delle sue frasi emblematiche – è sobrio e privo di drammi. Non è il bisogno di superare gli altri a qualunque costo, ma il bisogno di servire gli altri a qualunque costo”. Evangelico sì, ma senza porgere l’altra guancia. Come quella volta al Masters di Stoccolma, nel ’75, quando in vantaggio 4-1 contro Nastase nel set decisivo sbattè per terra la racchetta ritirandosi. Il romeno l’aveva provocato per tutto il match chiamandolo <Negroni>, finché Arthur decise di averne abbastanza: “Me ne vado perché temo di non controllarmi, preferisco perdere la partita piuttosto che il rispetto di me stesso”, spiegò all’arbitro.
Ashe considerò il tennis come un mezzo più che il fine. Questo non gli impedì di trionfare ai Campionati d’Australia del 1970, seconda perla Slam. E di disegnare il suo capolavoro sull’erba di Wimbledon nel ’75, a 32 anni, quando battè in finale Jimmy Connors, dieci anni meno di lui, che l’aveva sempre sconfitto in precedenza. Con le lenti a contatto anziché i soliti occhiali, giovane nell’aspetto e nella condizione atletica, volò sul campo, rimase solido dal fondo, aggredì la rete e non diede mai ritmo né punti di riferimento a quel rivale favoritissimo, pestifero e antipatico, totalmente diverso da lui. Fu quella l’ultima grande vittoria. Colpito da un infarto nel ’79, si ritirò l’anno dopo per diventare capitano della squadra Usa di Davis. Ma il cuore lo tradì di nuovo nell’83. Finché nell’88 scoprì la terribile verità dell’Aids, contro cui combattè a modo suo: creando cioè una fondazione che aiutasse chiunque non potesse pagarsi le cure mediche. Quindi volle dedicarsi a comporre le sue memorie, terminando il manoscritto giusto una settimana prima di morire. Dentro c’è, completa, la sua eredità: “Sono stato il primo nero ammesso in uno sport di bianchi. E ho imparato che campione è chi lascia il suo sport migliore di quando ci è entrato”.