Un cordoglio unanime per un uomo che è stato spesso – per sua stessa ammissione – divisivo e che ha finito per unire tutti, negli ultimi anni passati ad affrontare la malattia e nel giorno della sua scomparsa: Sinisa Mihajovic è morto all’età di 53 anni, dopo tre anni e mezzo passati a combattere la leucemia mieloide acuta. Due trapianti di midollo osseo, una prima risalita, il ritorno in panchina: diapositive di un percorso complesso, tormentato, che lo aveva reso un simbolo per tanti malati nelle sue condizioni.
La sua vita era stata avventurosa già come calciatore: aveva vinto la Coppa Campioni del 1991 con la Stella Rossa Belgrado – una delle più romantiche dell’era della competizione – poi la guerra nei Balcani lo aveva portato in Italia, prima alla Roma, poi Sampdoria, Lazio e Inter dove ha conquistato due scudetti (Lazio 2000 e Inter 2006), quattro Coppe Italia – due con la Lazio e due con l’Inter – e una Coppa delle Coppe con la Lazio nel 1999.
Leader in campo, a volte sopra le righe, ma soprattutto “kicker” micidiale: con 28 gol su punizione diretta è tuttora il primatista in Serie A insieme ad Andrea Pirlo. In Italia trova anche l’amore – la compagna Arianna Rapaccioni, che sposerà nel 2005, e che gli ha dato cinque figli – e al termine della sua carriera in campo inizia quella in panchina, prima come vice di Mancini all’Inter e poi da allenatore capo.

Inizia a Bologna, per un curioso intreccio del destino quello che sarà anche il suo ultimo club: salvezze insperate (Catania, Bologna), qualificazioni europee (settimo posto con la Sampdoria) e qualche esperienza non proprio indimenticabile perché spesso, dopo un inizio focoso e convincente, finiva per perdersi un po’ la sua spinta. Ha guidato la sua Serbia, il Milan e il Torino, poi era tornato a Bologna a gennaio 2019 per salvare i rossoblù: ereditò da Pippo Inzaghi una squadra a 14 punti in 21 giornate, virtualmente retrocessa, e la salvò con una poderosa volata da 30 punti nelle restanti 17 gare.
Dopo qualche tentennamento con la corte delle big, Mihajlovic resta, rinnova e sembra aver trovato il suo posto nel mondo ma irrompe la malattia: a luglio 2019 la annuncia al mondo, a modo suo. “Non ho paura, la affronterò petto in fuori”. E così è stato, con atti che lo hanno reso un simbolo alla lotta contro i tumori. Resta negli occhi di tutti l’immagine del 25 agosto 2019: Mihajlovic ha affrontato il primo ciclo di chemioterapia, ma per la prima di campionato fa sanificare una macchina e si fa portare dall’istituto ematologico Seragnoli di Bologna al Bentegodi di Verona per la prima giornata di campionato.
“Ero 72 chili, più morto che vivo, ma avevo fatto una promessa ai ragazzi e volevo esserci”, raccontò sorprendendo tutti. La squadra rimase quasi travolta da tanta emozione e andò poi a dedicargli sotto la sua finestra all’ospedale Sant’Orsola di Bologna la vittoria 3-4 a Brescia, alla sua prima assenza in panchina. Una simbiosi potente, con i suoi ragazzi e con la città, che organizza pellegrinaggi al santuario di San Luca (a uno partecipano, insieme, tifosi del Bologna e della Lazio) mentre sul campo lo staff segue il lavoro quotidiano – partite comprese – in costante contatto telefonico con la sua camera d’ospedale.

A ottobre 2019 si sottopone al primo trapianto, poi riprende gradualmente – anzi, mica tanto…alla Sinisa – il suo lavoro: Bologna gli conferisce la cittadinanza onoraria a novembre 2021, dopo qualche ritardo e alcune polemiche, e lui si definisce “sempre grato” alla città, sottolineando che “io e Bologna siamo stati fortunati a trovarci”. Sport e vita, unite in modo indissolubile come a marzo 2022, quando gli esami lo costringono al nuovo stop aprendo il nuovo atto della sua battaglia: tanto riserbo, la speranza di un bis e altre immagini che “rimangono” e che la dicono lunga sulla tempra del serbo. Come quando il 25 luglio 2022 sfidò una calura infernale per essere ugualmente al raduno della squadra a Casteldebole prima della partenza per il ritiro, parlando ai suoi ragazzi a debita distanza e seduto su una sedia sul prato del centro tecnico.
Torna in panchina per le gare ufficiali, ma la squadra non parte bene e arriva l’esonero, anche se il Bologna non userà mai quel termine usando la formula del “rapporto professionale interrotto”, sottolineando in più occasioni – anche oggi, ricordandone la figura – il legame andato inevitabilmente oltre il classico rapporto tra club e allenatore. Al suo posto arriva Thiago Motta, mentre Mihajlovic si congeda da Bologna con una lettera commovente e aperta alla Gazzetta dello Sport, in cui ammette di “non capire l’esonero” e fa capire di non essersi lasciato benissimo con un paio di dirigenti, omettendone i nomi nella lunga lista di ringraziamenti.
Ma le parole al miele sono tutte per la città: “Saluto dei fratelli e dei concittadini. La mia avventura a Bologna non è stata solo calcio, non è stata solo sport. E’ stata un’unione di anime, un camminare insieme dentro un tunnel buio per rivedere la luce. Ho sentito la stima per l’allenatore e quella per l’uomo. Il vostro calore mi ha scaldato nei momenti più difficili. Ho cercato di ripagare tutto questo affetto con il mio totale impegno e attaccamento alla maglia: non risparmiandomi mai sul campo o da un letto di ospedale”. Perché Sinisa era così e lo ricordava spesso: “Si può discutere l’allenatore, non l’uomo”. Per questo motivo ora tutte le tifoserie dei suoi club – e in molti casi anche quelle di cui sul campo è stato fierissimo nemico – lo ricordano con un affetto unanime. E Sinisa, da lassù, vedendo quest’ondata di buoni sentimenti che da vivo lo ha spesso imbarazzato, si sarà fatto una risata delle sue.