E ora chiamatelo semplicemente Re Carlo. Senza ulteriori specifiche territoriali, tanto Carlo Ancelotti ha vinto dovunque, completando in questa stagione il suo personalissimo tour europeo dei trionfi: a fine aprile il tecnico di Reggiolo è diventato il primo allenatore della storia a vincere tutti i big five, i cinque principali campionati d’Europa (Italia, Inghilterra, Germania, Francia e Spagna) e quasi un mese dopo è diventato il primo tecnico nella storia a vincere quattro Champions League.
Oggi Re Carlo compie 63 anni e li festeggia con stile, come durante la parata per celebrare il successo nella Liga: completo, occhiali da sole e sigaro, attorniato dai suoi giocatori. È la sua forza, il rapporto con il gruppo: questa stagione a Madrid lo ha sancito ancora una volta di più, con alcune scene diventate iconiche. Su tutte, il momento in cui Ancelotti durante la semifinale di ritorno contro il Manchester City si gira verso Kroos e Marcelo, in panchina, confrontandosi con loro su una sostituzione: “Voleva un parere da noi più esperti su chi sostituire nel supplementare. È una situazione che lo qualifica e che spiega così bene perché Carlo funzioni così bene in questa squadra”, ha spiegato il centrocampista tedesco Kroos raccontando quell’episodio.
Uno dei tanti momenti-chiave di una cavalcata Champions entusiasmante da parte dei Blancos: più volte vicini all’eliminazione, spesso spalle al muro, bravi a sfruttare ogni episodio e l’impatto anche psicologico del Santiago Bernabeu. Qualcuno maligna, anche parecchio fortunati. “Non ho mai visto un allenatore che ha vinto avere sfortuna”, ribatte Re Carlo dopo aver alzato la 14° Champions della storia del Real. Semplicità, prima di ogni altra cosa. Anche in finale contro il Liverpool: i Reds di Jurgen Klopp attaccano ma sbattono su un sontuoso Courtois, il portiere belga del Real che para di tutto e di più sia sullo 0-0 sia sull’1-0 madridista firmato Vicinius. “Il portiere ha parato, l’attaccante ha segnato e finita la gita”, sorride Re Carlo a fine gara.

ANSA/MATTEO BAZZI
Uno così, pane e salame. Come quello con cui pasteggiarono – alle nove del mattino, con pure un po’ di buon lambrusco – lui, Galliani e Braida quando l’allora dirigenza del Milan convinse “Carletto” a preferire il rossonero al Parma, dando inizio a una delle tante epopee della sua carriera. Alla Juventus – mai amato dal pubblico – non era andata bene, al Milan è partito il ciclo dei trionfi: due Champions League (2003 e 2007), uno scudetto (2004) e un Mondiale per Club. Dopo il rossonero, va a vincere la Premier League con il Chelsea nel 2010, la Ligue 1 con il Paris Saint-Germain nel 2013, una Champions – la mitologica “Decima”, che era diventata un’ossessione – e un mondiale per club a Madrid nel 2014, una Bundesliga con il Bayern Monaco nel 2017.
Dopo le esperienze non particolarmente gratificanti con Napoli ed Everton, arriva la chiamata bis da Madrid: “Tornerebbe da noi?”, gli chiede Florentino Perez. Nemmeno da chiederlo. “Sarà un anno di transizione”, annuncia Ancelotti al suo arrivo: alla faccia. Vince quella Liga che gli era mancata nella prima esperienza, completando la sua collezione di allori nazionali, e poi il colpaccio in Champions che ha portato a 23 il numero di trofei vinti in carriera da tecnico: un dato che alimenta il dibattito – forse pleonastico – sul miglior allenatore della storia del calcio.
Spesso sul tema si va a gusti, o a simpatie. Ma le statistiche mettono Carlo Ancelotti da Reggiolo nel pantheon, senza alcun dubbio. E a chi abusa della parola fortuna, si può anche rispondere citando il percorso del suo Real Madrid in questa Champions negli scontri diretti: Paris Saint-Germain agli ottavi, Chelsea ai quarti, Manchester City in semifinale, Liverpool in finale. Rimonte ai limiti dell’impossibile, erroracci altrui, legni amici: va bene tutto, ma di fatto il Real ha battuto nel cosiddetto knockout stage tutte le favorite della competizione, una dietro l’altra.
Quanto basta per eliminare dubbi o tentativi di riabilitare quella che è stata una vera propria impresa: Benzema alla miglior stagione della sua carriera, il trio Modric-Casemiro-Kroos che in mediana continua a prendere a calci l’anagrafe, una difesa dove non ci sono grandissime stelle, un portiere di alto livello e qualche baby talento che sta esplodendo poderosamente come Vinicius, Rodrygo e Camavinga.

Così si torna sul tetto d’Europa. Insieme a un preparatore che da anni è considerato tra i migliori in circolazione come Antonio Pintus (il preparatore atletico più vincente in Europa) e, soprattutto, con un pezzo della sua famiglia come il figlio Davide, classe 1989. Ha preso il patentino Uefa A nel 2016 entrando nello staff del padre al Bayern, al Napoli, all’Everton e al Real Madrid, dopo averne fatto parte come preparatore già a Parigi e nella prima esperienza spagnola. In Campania, coi risultati che latitavano, qualcuno mise sul piatto la parentela tra i due con voci tutt’altro che simpatiche: questa Champions è un calcio anche alle malelingue e a una parola, “raccomandato”, che non può che dare fastidio.
Il battesimo, a Madrid, glielo fece Iker Casillas portandolo con sé in palestra per un allenamento in cui Ancelotti junior dovette sostanzialmente indicargli gli esercizi da fare e soprattutto farsi ascoltare. “Provino” passato in uno spogliatoio tutt’altro che sprovvisto di carisma e leadership: da lì in avanti Davide Ancelotti è diventato gradualmente il braccio destro di papà Carlo fino alla Champions alzata insieme quest’anno e festeggiata al fischio finale di una serata particolare – la malagestione della UEFA degli accessi e il lungo ritardo di oltre mezz’ora nel calcio d’inizio della gara di Parigi – chiusa con l’emozione più grande.
Quell’abbraccio tra padre e figlio, entrambi con le lacrime agli occhi, al termine di una stagione quasi troppo bella per essere vera: l’annata che, un trionfo dopo l’altro, ha portato ancora di più Carlo Ancelotti da Reggiolo in cima al mondo.