“Le persone hanno spesso pensato che io fossi arrabbiata. Si sbagliavano. Sopra ogni altra cosa ero determinata. Ho vinto la mia dose di battaglie. E sono diventata veramente libera”.
Lunga la vita felice – almeno nell’happy ending – di Billie Jean Moffitt King, una delle più grandi campionesse della storia del tennis. Campionessa dentro e fuori dal campo, grazie anche a quella caratteristica – la determinazione, appunto – che mette come epigrafe alla sua autobiografia.
Un bestseller monumentale pubblicato in Italia da La nave di Teseo: 670 pagine, di cui 40 spese per i risultati di una carriera infinita. Tutto in gioco è il titolo italiano del libro, che rende qualcosa in meno rispetto a quello dell’edizione americana: All in, contiene esplicito il concetto del rischio, costi quel che costi. E per Billie Jean i costi sono stati alti.
“È la storia di una donna rivoluzionaria, di un’atleta eccezionale e di un carattere indomito, le cui vittorie hanno raggiunto traguardi che superano i confini dello sport”, ha recensito il New York Times. Tutto giusto. Perché B.J. King ha intrecciato la sua personale storia alla Storia con la S maiuscola.
Nata a Long Beach il 22 novembre 1943, ha compiuto 78 anni ma è ancora pronta a salire sulle barricate. Padre pompiere, madre casalinga, fratello diventato giocatore di baseball nella Major League: gente modesta, tradizionale, tutti a messa la domenica e i due ragazzi caldamente invitati a rigare dritto perché la famiglia non sguazza nell’abbondanza. Ma la bambina quattrocchi (gli occhiali con la montatura leggera fanno parte della sua leggenda) ha in sé qualcosa di speciale: incontra il tennis per caso sui campi pubblici della California e scopre lì la sua vocazione.
Si capisce subito che è una predestinata. Nel gioco e nell’attitudine a mostrarsi una rompiscatole precoce: a 11 anni, nella foto di gruppo del suo primo torneo, viene cacciata via perché indossa i pantaloncini e non il gonnellino bianco come le altre.
L’incidente non la demoralizza, anzi. Pur di pagarsi le lezioni di tennis si adatta a lavoretti umili: si occupa degli asciugamani in un club atletico. Soprattutto si applica anima e corpo nella preparazione, lei che non è proprio un’amazzone. Altezza 1,65 per 63,5 chili di peso, un corpo normale che potenzia con l’allenamento per il fiato e per irrobustire le gambe, nel cortile di casa. È sempre in movimento. Panini, colazione al sacco, pullman o autostop, corre dappertutto per partecipare ai tornei junior del territorio. Promette bene, ma si porta dietro sempre lo stesso problema: è una ragazza, una a cui è inutile insegnare il servizio kick “perché quella è cosa da maschi”.
Sono parole del suo primo maestro Frank Brennan, il medesimo che con brutale sincerità preconizza: “Riuscirai perché sei brava e brutta”.

Brava è evidente. Brutta non è vero, quel topolino saltellante piace eccome. A uomini e donne. Piace a Larry King, lo studente in legge alto e biondo che sarà suo marito nel ’65. E piace a Marilyn, una parrucchiera che la vede giocare, se ne innamora e diventa la sua amante. La scandalosa relazione resterà un segreto condiviso con le compagne del Virginia Slims, dieci tenniste che prendono in mano il loro destino sportivo creando un circuito itinerante al femminile, opposto a quello maschile ricco e famoso. È una sfida frontale al sistema. Ribellione con pieno diritto di cittadinanza in un’America che ribolle di fermenti: gli studenti in piazza contro la guerra del Vietnam, il nascente movimento femminista, la controcultura psichedelica degli hippy, Kennedy, Luther King, Nixon, Muhammad Ali, il ’68 e i diritti civili.
In quell’epoca così frastagliata, Billie Jean trova tre punti di riferimento. Il primo è Rosa Parks, l’attivista dalla pelle scura che nel ’55 rifiutò di cedere il posto sull’autobus a un bianco. Il secondo è Ruth Bader Ginsburg, ebrea immigrata entrata nella Corte costituzionale Usa – la King ne cita il motto: “Combatti per quello a cui tieni, ma fallo in modo che spinga gli altri a unirsi a te”. Il terzo è Althea Gibson,pioniera del tennis afroamericano che B.J. ricorda così: “La vidi giocare, era nera e vinse cinque titoli Slam, diventando attivista contro la segregazione razziale: avevo appena visto quello che desideravo diventare. E se riesci a vederlo, puoi diventarlo anche tu”.
La signorina Moffitt intanto bruciava le tappe. Nel ’61 sbarca diciassettenne a Wimbledon e vince il doppio con Karen Hantze Susman, appena un anno più di lei, la coppia più giovane di sempre ad alzare il trofeo. L’anno dopo, ancora sui prati dell’All England lawn tennis and croquet club, batte al primo turno la numero uno del mondo Margaret Court Smith. Diventa la vedette del tennis rosa e ne prende il timone fra i marosi dell’era Open. Non può temere la bufera una che per migliorarsi se n’era andata in Australia ad allenarsi con gli uomini. Né può curarsi delle battute al veleno di Fred Stolle, inseparabile compagno di doppio del mito Roy Emerson: “Nessuno pagherà per vedere giocare voi pollastre”. La battaglia contro l’establishment era appena cominciata.
Il culmine arriva il 20 settembre 1973 all’Astrodome di Houston, 30mila spettatori in tribuna e 90 milioni davanti alla tivù per assistere alla partita del secolo. Da una parte Billie Jean, dall’altra Bobby Riggs, campione degli anni ’40, tre volte in cima alla classifica mondiale nei suoi momenti migliori. Lei ha quasi 30 anni, lui 25 di più. Lei donna, lui uomo. Lei una suffragetta, lui un maschio sciovinista, come si presenta durante il tambureggiante battage pubblicitario – mai visto niente di simile fino ad allora – che precede il match. Riggs crea un evento irripetibile, presentandosi sul ring (non è un semplice campo da tennis) da favorito: non ha forse asfaltato 6-2/6-1 quella virago di Margaret Court Smith? “Signore, fa che io batta quel buffone”, è la preghiera di Billie J., l’anticonformista conservatrice che tiene in valigia la Bibbia accanto alle racchette, come i morigerati genitori le hanno insegnato.

L’America si ferma per assistere alla partita. Riggs è un personaggio bizzarro, originale, anche un po’ imbroglione. Forse prende sottogamba l’impegno, forse – è la chiacchiera che gira – ha scommesso forte sulla propria sconfitta. Fatto sta che all’Astrodome non c’è partita: il 6-4/6-3/6-3 con cui B.J. stende il rivale è il trionfo della volontà, l’applicazione e la tattica. “Se non avessi vinto, saremmo tornati indietro di mezzo secolo”, scrive nel libro la campionessa. Il suo successo costringe i dirigenti d’azienda californiani a pagare pegno: per una settimana sono loro a preparare il caffè alle segretarie.
È la spallata decisiva per l’uguaglianza di genere nello sport e non solo. Nel ’72 Billie Jean aveva vinto gli Us Open, intascando un assegno inferiore di 15mila dollari rispetto a quello dell’omologo maschio Ilie Nastase. “Se il premio non sarà uguale a quello degli uomini, l’anno prossimo non ci sarò”, aveva minacciato al microfono lei durante i ringraziamenti. Com’è finita? Nel ’73 i campionati americani sono stati il primo grande torneo a offrire parità di vincite a uomini e donne. Il trionfo del Women’s lob, dove lob sta per pallonetto ma evoca la parola lib, ovvero libertà.
Gioco d’attacco, conquista della rete, colpi al volo, dritto lungolinea da manuale, mortifero rovescio a una mano. Dominante su erba, cemento, moquette indoor, terra rossa. Numero uno mondiale per sei anni, 39 titoli Slam (12 in singolare), 20 successi a Wimbledon come la sua erede – e alla fine compagna di doppio – Martina Navratilova.
Billie Jean ha superato ogni ostacolo. Ne restava uno solo, quello più alto. Quanto è stato difficile ammettere di essere lesbica in un mondo maschilista e retrogrado? E quanto le è costato venire a patti con una sessualità diversa e l’educazione familiare estremamente rigida? Fatto sta che nel 1981 ammette pubblicamente l’amore per la compagna.

È uno choc collettivo. L’opinione pubblica puritana non le perdona di aver tradito il marito con una donna. Larry King chiede immediatamente il divorzio (l’otterrà sei anni dopo). I pregiudizi sociali si traducono nella perdita a catena degli sponsor. E a 38 anni si ripresenta ai tornei, per pagare gli avvocati assoldati nella causa promossa contro di lei dall’ex amante Marilyn. La campionessa accusa il colpo ma non arretra. Combatte per la libertà sua e degli altri. Scrive: “Ognuno di noi, ragazze o ragazzi, può essere ciò che desidera essere”. Dà l’addio al tennis nell’83, a quarant’anni, ma gioca sporadicamente in doppio fino al ’90. Nel 1987 entra nella Hall of fame del suo sport. Nel 2009 Obama le conferisce, prima atleta donna, la Medaglia del Presidente per la libertà.
Nel 2017 esce il film La battaglia dei sessi ispirato al match con Bobby Riggs, a interpretare la sua parte è Emma Stone. Nel 2020 la Federation Cup (l’equivalente della Davis per le donne) prende il suo nome. Elton John le ha dedicato una canzone, Schulz molte strisce dei Peanuts. La rivista Life l’ha inserita tra le cento eminenti personalità americane del Novecento.
Nel 2018 ha sposato la compagna Ilana Kloss tra sorrisi, festa e commozione.
L’ultima frase del suo libro dice tutto: “Una volta che ho cominciato a vivere con sincerità sono riuscita di nuovo a respirare. Non devo più mentire o nascondermi. Sono libera”.