Era una Domenica mattina di primavera, con l’aria frizzantina quando uscii da casa mia in Via Cagna 11 a cento metri dallo stadio Amsicora. Avevo 11 anni.
Avevo messo le scarpe bianche Superga. Di gomma, alte, telate, le usavo per il basket, ma anche per andare a messa o allo stadio. I tubolari a striscia rosso-blu’ erano i miei calzettoni, per calzoncini avevo messo quelli eleganti, corti, blú con le tasche e il risvoltino sopra al ginocchio. La maglietta ovviamente era rossa, quella col colletto ben stirato da mamma.
Dopo un bel caffellatte pieno di pane duro, prima della messa delle 11 a San Pio X, volevo già fare un giro esplorativo, subito li, in Piazza Amsicora perché c’era già movimento.
I venditori autorizzati iniziavano ad allestire.
Li in Piazza Amsicora la Domenica in cui giocava il Cagliari era tutta un’altra storia.
Lì c’erano i tavolini e le bandiere, i cuscinetti imbottiti rosso-blù dove poggiare le natiche sul freddo cemento o sul legno bagnato, li si faceva la sosta per comprare i semini salati, i ceci e le altre cose da sgranocchiare durante le partite del Cagliari.
E quando andava bene, quindi quasi sempre in quel secondo lustro degli anni sessanta, dopo la partita del Cagliari Nonno o Papà ci invitavano sempre con la solita frase “Mi sa’ che ci scappa anche il gelatino al bar di Gaviano”.
Il fermento era palpabile già verso le 10.
Dai paesi iniziavano ad arrivare le macchine dei tifosi.
Quella del 12 Aprile 1970 era una Domenica specialissima. Tutto profumava di festa. Come se fosse il tuo compleanno e il giorno di Natale.
Di più, molto di più:
il Cagliari poteva diventare campione d’Italia!
Se batteva il Bari e la Juve non vinceva a Roma con la Lazio saremo diventati matematicamente Campioni d’Italia con due giornate di anticipo, capito? Campioni d’Italia, con due giornate d’anticipo!

Il sogno si stava per realizzare per noi sardi in Sardegna e per quelli in tutto il mondo che seguivano quel magnifico Cagliari. Ma era il sogno anche di tutti i ‘continentali’ che avevano iniziato a tifare Cagliari perché conquistati da quella squadra ‘simpatia’ guidata da quel gran filosofo chiamato Manlio Scopigno e trascinata dal più grande attaccante di tutti i tempi della nazionale italiana, Gigi Riva.
Io mi pregustavo la grande festa e non vedevo l’ora, come tutte le Domeniche da un lustro a quella parte, di andare all’Amsicora, in tribuna laterale, entrando tenuto per mano da papà.
Era tradizione per noi maschietti tutte le Domeniche nella quali il Cagliari giocava in casa. Si andava all’Amsicora in cricca: fratelli, zii e cugini sotto la direzione de Nonnu Porcella e la sua cerchia di amici. Io in genere ero incaricato di portare la busta di arance sanguigne di Villacidro e Gonnosfanadiga che poi mangiavamo durante la partita alternandole ai semini di zucca che nonno ci comprava fuori dallo stadio, la’ sotto la tribuna alberata.
h.2,25 Gli altoparlanti dell’Amsicora, gracchianti, squillavano le formazioni:
“Formazione Cagliari:
Albertosi, Martiradonna, Zignoli, Cera, Niccolai, Poli, Domenghini Nene’ Gori, Greatti, Rivaaaaa….Allenatore: Manlio Scopigno.
Il boato entrava nelle orecchie. Lo stesso che a metà primo tempo riempì lo stadio quando segnò GiggiRRiva di testa!
A pochi minuti dalla fine le notizie dalle radio confermavano che la Juve stava perdendo a Roma con la Lazio. Io mi preparavo all’invasione di campo. Dovevo arrivare in prima fila per essere poi in testa all’invasione. Finalmente ci arrivai, mancavano sei minuti alla fine ed ero appiccicato alla rete di confine.
Gori, Gori gool, 2 a 0, è fatta ! Ne approfittai per scalare la rete e piazzarmi in cima al paletto che la teneva. Triplice fischio dell’arbitro.
Salto giù e inizia la corsa pazza gioiosa sul prato dell’Amsicora. Mi fermo un attimo sulla metà campo per strappare un pezzetto di erba dell’Amsicora che conserverò tra i miei cimeli… e poi continuo a correre felice, estasiato come se fossi in contropiede a inseguire i giocatori che rientravano festanti verso gli spogliatoi cercando di non essere svestiti dal pubblico in delirio.
Ma non volevo fermarmi e mi diressi anche io verso il sottopasso.
C’era però un cordone di carabinieri in tenuta nera con la fascia bianca che chiudeva il passaggio e faceva da protezione a giocatori, giornalisti, arbitro, segnalinee e dirigenti autorizzati a scendere negli spogliatoi per la festa.
“Chissenefrega, me la tento” pensai. Mi tuffai basso sotto le braccia di due carabinieri che non potevano mollare la presa per acciuffarmi, col rischio di spezzare il cordone tra la folla che pressava.
Non mi agguantano, mi rialzo e scendo giù dal sottopassaggio facendo tre scalini alla volta e dirigendomi verso quello spogliatoio del Cagliari che ben conoscevo perché andavo sempre a prendere gli autografi dopo gli allenamenti. Davanti agli spogliatoi c’era un capannello ululante di dirigenti, politici, giornalisti, fotografi, amici dei giocatori che pressavano per entrare e festeggiare anche loro quell’incredibile scudetto.
Ero schiacciato accanto a un omone sbraitante. Era Walter Chiari, l’attore famoso, amico di Domenghini, che come si apre una porta laterale il massaggiatore lo tira dentro…. con me attaccato alla tasca della sua giacchetta.
Incredibile, ero anch’io dentro gli spogliatoi con Riva, Gori, Domenghini già seminudi sotto la doccia con una bottiglia di champagne…
Davanti a me c’era Nené che si stava spogliando per raggiungere l’abbraccio dei compagni.
“Nené , Nené….la maglietta… “ gli urlai.
Lui mi guarda sorridente ricacciando la maglietta sul borsone e mi risponde: “Questa la tengo io per ricordo. Guarda li, il calzettone di Gigi Riva” indicando un calzettone fradicio sul pavimento.
Lo afferrai al volo prima di essere cacciato via di mala maniera .
Uscii esultante dalla porta in ferro di Via dei Salinieri straripante di gente, urlando ingenuamente “Il calzettone di Gigi Rivaaaa!”. Subito due-tre mani lo afferrarono cercando di strapparmelo.
Dovetti morderle furioso per far staccare la presa e col cuore in gola scappai verso casa per poter nascondere il mio cimelio prezioso.

Entrai in camera mia, presi la valigetta degli autografi e vi aggiunsi il ciuffetto di erbetta dell’Amsicora, poi mi sdraiai sul letto sognante, infilando sulla gamba sinistra quel calzettone di GiggiRriva che mi arrivava fin sopra il ginocchio.
Mamma entrò in camera per assicurarsi fossi rientrato e fosse tutto a posto. Sapeva già tutto anche se non era una sportiva. Mi vide sdraiato con quel calzettone sporco indossato con gioia.
Mi sorrise accarezzandomi e allungando la mano come per sfilarmelo:
“ Dai, dammi quà che te lo lavo…”
”Maaa…no, lasciamelo, lasciamelo così c’è il sudore dello scudetto”.
Il sudore dello scudetto.
Era stato uno scudetto unico e speciale per Cagliari, per la Sardegna, per i sardi nel mondo, per tutti gli amanti, in Italia e all’estero, di quella grande squadra-simpatia di provincia. Una squadra con campioni e operai che brillava per unità, armonia e sportività. La prima che aveva vinto il titolo italiano contro le grandi potenze delle città metropolitane.
E lo aveva fatto con la sola forza d’animo dei suoi giocatori, dei suoi dirigenti e l’entusiasmo del suo popolo.
Su populu sardu.