Allenatore galantuomo, certo, ma non un tecnico tenero. Uomo di grande cultura, non solo calcistica, amante della lirica, di Salgari e del Risorgimento, Azeglio Vicini è stato uno dei più amati allenatori della storia della Nazionale.
Il sentimento popolare e inebriante delle “notti magiche” suscitate dai suoi azzurri nel Mondiale di Italia ’90 non si era mai visto, né più ripetuto. Una squadra frizzante, cresciuta in gran parte con lui dai tempi dell’Under 21, diventata adulta con un graduale percorso basato sul talento e sulla consapevolezza. E vale la pena ricordare come la sua Italia, quella dell’esplosione di Roby Baggio e Totò Schillaci, arrivò fino alle semifinali senza mai avere subito un gol, clean sheet, un’impresa riuscita nella storia dei mondiali solamente al Brasile di Pelè nel ’58 e all’Inghilterra di Bobby Charlton nel ’66. Un unico maledetto e beffardo gol, incassato da Caniggia, su un malinteso tra Zenga e Ferri, nella semifinale di Napoli contro l’Argentina di Maradona allungò il match fino ai calci di rigore e poi all’amara eliminazione per gli errori di Serena e Donadoni. Già nell’86, con la nazionale dei giovani, il successo gli fu portato via nella finale degli Europei proprio ai penalties contro la Spagna allenata da Luisito Suarez per i mancati gol di Desideri, Giannini e Baroni.
Vicini, comunque, nei mondiali di casa del ’90 concluse da imbattuto, come Enzo Bearzot nel ’78, ma, al contrario del Vecio, a Azeglio non fu data la possibilità di giocarsi un’altra chance mondiale. Fatale la mancata qualificazione agli Europei del ’92 per esautorarlo e sostituirlo con Arrigo Sacchi, esponente della nouvelle vague. Otto anni più tardi, dopo le dimissioni del ct Dino Zoff in polemica con Silvio Berlusconi, Vicini rivelò che anche nel suo caso il mandante fu il Cavaliere: “non fui certo esonerato per il palo di Rizzitelli a Mosca. A metà del girone era già tutto deciso”.
Pur contraddistinto da un carattere bonario e garbato, Vicini era un allenatore che non si nascondeva se c’erano dei principi da difendere. Da responsabile degli allenatori ingaggiò un duro confronto con la Federazione prima contro la nomina di David Platt alla guida della Sampdoria poi di Roberto Mancini (suo antico pupillo) alla Fiorentina. Entrambi privi di patentino. Non le mandò certo a dire a personaggi da novanta come Giancarlo Abete, Gianni Petrucci e Franco Carraro. Schermaglie anche con Marcello Lippi che si lamentò come il suo sindacato degli allenatori non lo avesse difeso dagli attacchi di Zeman lasciando che tesserati potessero “sproloquiare senza conseguenze”. Vicini rispose “veramente i fatti che stanno emergendo danno ragione all’allenatore della Roma”. Nel ’99 si scagliò contro i capi degli arbitri Bergamo e Pairetto sul tema del professionismo dei direttori di gara, gli arbitri.