Fra qualche giorno, il 5 Agosto, avranno inizio le Olimpiadi di Rio de Janeiro. Saranno presentate come le Olimpiadi dell’antidoping o dello sport leale. Le due formule sembrano equivalenti: ma non lo sono. All’insegna dell’Antidoping, vale a dire, l’insieme degli apparati e dei procedimenti di controllo sugli atleti, le Autorità competenti innalzeranno, ideale Tedoforo, la squalifica dell’intera Federazione russa di atletica leggera, cui va aggiunta l’annunciata revoca di ben 23 medaglie già assegnate (a complessive 8 diverse nazioni) alle precedenti olimpiadi di Pechino, nel 2008, e di Londra, nel 2012. L’impatto è innegabile.
“Le nuove analisi dimostrano ancora una volta l’impegno del Cio nella lotta contro il doping”, ha commentato il Presidente del Comitato olimpico internazionale, Thomas Bach; nell’occasione sarebbero stati impiegati “i più recenti metodi di analisi scientifiche”. Lo stesso CIO ha precisato, quanto all’edizione di Pechino, trattarsi di “risultati provvisori”. Non chiarendo se la provvisorietà preluderebbe ad un’estensione o ad una riduzione delle accuse. Accanto alla solerzia ora-per-allora, si rileva inoltre una promettente attenzione per il futuro: “La procedura dei nuovi controlli…continuerà con altre due fasi, fino a dopo le Olimpiadi brasiliane al via il 5 agosto”. Bene.
Il punto, però, è che le sostanze capaci di alterare la resa psico-fisica di un atleta non nascono e muoiono con l’atleta che le assume. L’atleta è il punto di emersione di una struttura complessa che le produce e distribuisce. Complesso il male, complessa la diagnosi. Se la diagnosi pretende di essere semplice, risulta senz’altro carente, e può volgere alla complicità.
Si tratta infatti di ritrovati chimici che implicano ricerche, strutture, pianificazione su larga scala. La sostanza “dopante” è chimicamente assai prossima ad un farmaco; richiede che qualcuno la sintetizzi, dopo averla sperimentata: avendo un chiaro fine fisiologico e, pertanto, adeguate conoscenze; impone che qualcuno finanzi l’impresa, e che qualche altro curi la distribuzione; se, com’è ovvio, la distribuzione, per un verso, deve raggiungere vaste aree geografiche e numerosi potenziali acquirenti e, per altro verso, non può avvalersi dei canali leciti, dovrà giocoforza ricorrere a reti distributive “alternative”: cioè criminali. E già che si avvia il business, sorgono interessi, più o meno cospicui, alla sua prosecuzione, se non ad un suo incremento. Tutto questo è cosa risaputa. Qualcuno potrebbe osservare che la materia richiama quella del traffico di droga. E non sarebbe una fantasia.
Infatti, le anfetamine, gli stimolanti, la cocaina, l’eroina e la cannabis, nei paesi che hanno adottato tabelle antidoping, sulla falsariga di quelle previste dalle legislazioni sulla criminalità degli stupefacenti, sono presenti in entrambi i casi. Inoltre, la somministrazione duratura di anfetamine, stimolanti e cocaina, in uso “dopante” nel settore sportivo, innesca pacificamente dipendenza. Roba del passato? Sì e no: specialmente nella fascia di “sportivi” non professionisti (circa il 70% del mercato, come si dice). Sicuramente, oggi si assumono assai più steroidi anabolizzanti e testosterone (per aumentare la massa muscolare); tuttavia, queste sostanze tendono ad indurre l’assuntore ad un “ritorno” alle prime, a scopo “integrativo” o “compensativo”.
S’intende che si possono dare molte varianti, ma, per le nostre brevi osservazioni, è sufficiente rilevare questa tendenziale coincidenza fra canali produttivi e distributivi delle sostanze stupefacenti e di quelle “dopanti”, cosiddette. Si aggiunga che due altri grandi attori in questo sinistro palcoscenico, il GH, ovvero Ormone della crescita e l’EPO, vengono anch’esse “canalizzate” come le altre sostanze. Infatti, già circa venti anni fa, i nostri NAS avevano dichiarato: “Le dimensioni del traffico clandestino di sostanze doping sono in grande aumento e il traffico segue gli stessi canali utilizzati per le sostanze stupefacenti”.
Nel luglio del 1999, per es., da un deposito farmaceutico a Nicosia, Cipro, furono rubate poco meno di 5 milioni di fiale di EPO, sufficiente a soddisfare le esigenze terapeutiche di un anno per mezza Europa. Le Autorità locali si dissero certe che il furto fosse connesso al “mercato nero dello sport”, ma la vicenda non ebbe seguito. L’Ormone della crescita, sin dal 1993 era stato considerato di interesse criminale perchè, negli anni iniziali del suo uso, veniva estratto da cadaveri, e in quest’arte, secondo la statunitense DEA (Drug Enforcement Administration), ebbe subito una posizione di supremazia la criminalità russa. Potenza dei nomi.
Questo solo per dire che acqua ne è passata sotto i ponti, e droga nelle vene, in questi anni. E, probabilmente, di mano in mano, anche molto denaro. Solo che, in questo lungo lasso di tempo, non constano controlli; né squalifiche di massa anche lontanamente comparabili a quelle di cui si legge in questi giorni. Meglio tardi che mai, si dirà. Sicuramente. Solo che, se nessuno si è accorto di niente, per lo meno qualche dubbio sull’adeguatezza delle istituzioni sportive, nazionali ed internazionali, lo si potrebbe anche nutrire.
Ora, a proposito di adeguatezza e di affidabilità, non può che incalzare il caso di Alex Schwazer. LA IAAF, l’Associazione Internazionale di Atletica Leggera, sotto la cui sorveglianza, o non sorveglianza, è andata sviluppandosi, nei termini fin qui assai sinteticamente esposti, la “convergenza funzionale” fra mercato della droga e mercato del doping, ha visto, non più tardi del Novembre 2015, il suo ex Presidente, Lamine Diack (insieme al figlio) e l’ex responsabile dell’antidoping, Gabriel Dollè, accusati di corruzione, perché avrebbero trescato su esami, accertamenti e sanzioni. E si può supporre per vicende passate, non future.

L’attuale presidente della IAAF, Sebastian Coe, è stato il Vice di Diack per otto anni. Ha sempre detto di non essersi accorto di niente. E qui, se non viene dimostrato il contrario, si crede sempre alla non colpevolezza. Dove, tuttavia, è mancata senz’altro limpidezza, da parte dell’attuale gestione IAAF, non è su questo punto: sebbene, nessuno proibiva, o proibisca, a Coe, volendo, di dire qualche parola in più su quegli otto anni. Però la IAAF sa, perchè l’allenatore di Schwazer, Alessandro Donati, glielo ha scritto, di avere tuttora al suo interno “gente compromessa”.
Quando Donati parla di “gente compromessa” si riferisce esattamente, non genericamente, a quella ombrosa “convergenza di mercato”. E non da ora. In particolare, ne ha scritto in uno studio pubblicato nel 2006 “I traffici mondiali delle sostanze dopanti”. In quelle pagine illustrava, con una decina d’anni di anticipo sulle presenti investigazioni condotte, per conto della WADA, (l’Agenzia mondiale Antidoping), dall’Avv. Richard McLaren, quali fossero le origini chimiche del doping; dove reperire le informazioni riguardanti i canali distributivi (arrivando a censire oltre cento chiavi di ricerca, in quattro lingue diverse, utili a chiunque avesse voluto usarne); l’incombenza della criminalità, ed in particolare di quella russa e degli altri stati ex sovietici; l’estensione dei predetti canali distributivi all’intera Europa occidentale, ricordando un grande sequestro a Vienna (26 Gennaio 2002), due fabbriche clandestine scoperte in Inghilterra (4 Agosto 2003 e 29 Novembre 2004), una a Mosca (Gennaio 2005), il Belgio frequentato come utile crocevia; l’estensione alla Thailandia (un sequestro il 5 Settembre 2002, e due operazioni, il 30 giugno 2004 e il 1 Giugno 2005, computarono diverse centinaia di milioni di dosi di sostanze dopanti); lo specifico traffico su Internet, nel quale primeggiavano Cina e India, fra i maggiori produttori mondiali, e USA, nella distribuzione (dove furono rilevate 8 fabbriche clandestine e oltre duecento farmacie online abusive: il 21 Aprile 2005, operazione “Cyber Chase”, e 15 Dicembre 2005, operazione “Gear Grinder”, entrambe condotte dalla DEA); il coinvolgimento diretto dell’industria farmaceutica, con il caso della Serono, azienda svizzera: accettò di pagare 704 milioni di dollari, il 17 Ottobre 2005 davanti il Tribunale di Boston, perché aveva sistematicamente contraffatto le analisi dei malati di AIDS che assumevano un suo farmaco, il Serostim, facendo risultare miglioramenti inesistenti; ma, grazie ad un’interessata circolazione di notizie, era noto che il farmaco servisse in realtà al mercato del body building: dove numerosi malati, ricevuto il rimborso del prezzo (per anni, circa 700 dollari al giorno), grazie ad una solerte “assistenza” web, lo “giravano”.
Questo stesso Donati che così scriveva, non un altro, oggi ha più volte affermato che l’affaire Schwazer sarebbe una ritorsione per quello che lui ha sempre fatto, detto, scritto contro il doping. Soprattutto, perché ha sempre insistito che non ci si fermasse all’atleta e che si svolgessero accertamenti adeguati alle responsabilità istituzionali coinvolte, e alla dimensione del fenomeno criminale, o, per lo meno, economico; che non si isolassero i passaggi; che non si scegliesse una parte di ciò che affiorava, il controllato, per colpirla esemplarmente, ricoprendo subito l’altra, il controllore, per proteggerla. Mentre chiedeva tutto questo, avendolo, come visto, fatto da trent’anni a questa parte (il suo primo libro in materia è del 1989 (Campioni senza valore), in queste ultime settimane ha naturalmente insistito anche perché l’esame di Schwazer avvenisse celermente. L’ultima speranza, dopo i dinieghi fin qui succedutisi, è quella del Tribunale arbitrale dello Sport (TAS), che avrebbe dovuto decidere il prossimo 27 luglio. Ma la IAAF si è opposta ad un esame anticipato, e ha consentito solo che avesse luogo alla vigilia dell’apertura dei Giochi Olimpici, il 4 agosto. Deve essere stato per ragioni di cortesia: CONI e FIDAL, nel frattempo, saranno tornati dalle vacanze.
Ma, qui in Italia sappiamo; sappiamo. Terrorismo e Antiterrorismo. Mafia e Antimafia. Corruzione e Anticorruzione.
Lo sport leale può attendere; l’Antidoping no.