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June 24, 2014
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Gli Azzurri non riescono a dimenticare di essere italiani

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Time: 3 mins read

"È il giorno di un fallimento, inutile negarlo o girarci intorno. Sono triste per la squadra e per la nazione. Siamo usciti meritatamente. Ora dovremo fare tutti un bell’esame di coscienza". Queste parole pronunciate subito da Gigi Buffon, il migliore tra i 22 giocatori scesi in campo per la partita Italia e Uruguay, con gli Azzurri alla fine sconfitti per uno a zero, dicono tutto. Inutile girarci intorno, l'Italia esce dal mondiale del Brasile per demerito acquisito sul campo. 

La prima partita vinta contro gli inesperti ragazzini inglesi ci aveva illuso di avere una squadra. In realtà avevamo solo Buffon e un po' di Pirlo. Dopo l'Inghilterra, non abbiamo segnato più. Abbiamo creato pochissime occasioni. Giusto che andiamo via, andale Uruguay, che con tutti i suoi limiti,  almeno ha dimostrato di avere cuore,  rabbia (letteralmente, vedi il morso di Suarez) e stazza da campioni là davanti, come un certo Cavani. 

Balotelli, lo abbiamo capito, aveva solo la stazza, ma del campione abbiamo visto nulla. Ovvio pensarlo: aaah, se ci fosse stato Giuseppe Rossi, anche al 50 per cento della condizione…

Come nei Mondiali del Sud Africa, l'Italia va via subito. A buttarci fuori quattro anni fa la Slovacchia. Ma a chi scrive questi mondiali hanno semmai ricordato più quelli del '74 in Germania, quando fummo eliminati, sempre alla terza determinante partita, dalla Polonia. Ci sarebbe bastato il pareggio, perdemmo per 2-1. Già, magari vincere o fuori, come in Spagna 1982 contro il Brasile (al quale invece sarebbe bastato il pareggio). No, nel mondiale tedesco del 1974, come in quello brasiliano del 2014, ci sarebbe bastato pareggiare… E abbiamo giustamente perso. Il carattere di noi italiani è questo, inutile, come ci ricorda Buffon, girarci intorno. Se si potesse rigiocare la partita a parti ribaltate, con all'Uruguay due risultati su uno a disposizione e agli Azzurri la vittoria obbligata, l'Italia vincerebbe. O almeno, ci proverebbe veramente a  vincere. Quando si gioca per il pareggio, quindi per non giocare, si perde. Quindi, ci meritiamo di essere buttati fuori da questi Mondiali a calci e persino a morsi.

La responsabilità principale di questo fallimento va all'allenatore Cesare Prandelli, che essendo un uomo (nel senso sciasciano), alla fine della partita ha annunciato subito le dimissioni. Le colpe di Cesare? Non tanto quello delle scelte, alla fine questo passava il convento del calcio italiota (l'italiano del New Jersey Rossi era effettivamente infortunato). Ma quello di non essere riuscito ad entrare nell'animo di questi 22 ragazzi un po' troppo viziati  (scusate 20, risparmiamo sempre Buffon e Pirlo), per riuscire a scuoterne il carattere alla vigilia di questa partita con l'Uruguay. Prandelli avrebbe dovuto compiere il "miracolo" e far dimenticare ai suoi giocatori di essere italiani. Proprio così. Quel pareggio "a disposizione", si sapeva già, era una tentazione troppo debilitante per degli italiani. A Prandelli il "miracolo" non è riuscito, quello di trasformare i suoi azzurri in… polacchi! Già, come quelli del 1974. Anche a quella squadra polacca sarebbe bastato il pareggio con l'Italia per passare. E invece vinsero, 2-1 (gol di Szarmach e Deyna, poi l'inutile sussulto di Capello). Prandelli ieri invece  dalla panchina aveva quello sguardo, ancor prima che gli Azzurri andassero sotto, di colui che immaginava cosa stesse arrivando. E allora il mister azzurro, dato che non ha saputo far dimenticare ai suoi ragazzi, almeno per 90 minuti, di essere italiani in modo da poter vincere anche quando si può pareggiare, ha almeno subito lui dimenticato di esserlo, un italiano. E si è dimesso. Chapeaux Prandelli. Nella disfatta, almeno l'onore di Cesare è salvo.

 

Qui sotto il video di come abbiamo visto e sofferto la partita Italia-Uruguay a New York

 

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e diretto (2013-gennaio 2023) La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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