Il Dr. Antonio Boschini ha 66 anni ed è un medico infettivologo entrato in comunità all’età di 22 anni per problemi di tossicodipendenza. Dopo la laurea in medicina ha deciso di continuare la sua professione a San Patrignano come direttore terapeutico, dove risiede tuttora con la moglie e due figli.
Dopo oltre 40 anni di attività è possibile fare un bilancio ?
“Per quanto mi riguarda assolutamente positivo. Ritengo di essere un privilegiato avendo potuto vivere esperienze tanto intense, quanto costruttive. Siamo riusciti a creare dal niente una realtà importante, mettendo a punto un nostro metodo. Non dobbiamo però concentrarci soltanto sugli aspetti positivi, dobbiamo ricordare anche gli insuccessi che ci sono stati e fare in modo che rimangano numericamente inferiori”.

Lo scorso anno avete ospitato il convegno “Percorsi di cura nelle dipendenze da sostanze in Usa e in Italia” avete fatto una sintesi?
“Vi hanno partecipato alcuni studiosi che trattano le dipendenze negli Stati Uniti. Avevamo la necessità di un confronto proprio per le diverse visioni e impostazioni nell’affrontare un problema che, pur avendo la stessa matrice, ha un approccio culturale differente. Gli Stati Uniti stanno attraversando da svariati anni una crisi legata alle dipendenze da oppiacei, cannabis, eroina, in fortissimo aumento. Sempre più persone muoiono di overdose, la situazione sta assumendo proporzioni gigantesche”.
Che aree degli Stati Uniti sono coinvolte e come si spiega questa emergenza?
“Qualche anno fa riguardava principalmente le zone rurali, ma adesso questa emergenza è ovunque, pure in Canada. Il motivo principale, emerso dal convegno, è da associarsi a una campagna lanciata negli anni ‘90 per combattere il dolore a ogni costo. I medici sempre più pressati dalle case farmaceutiche hanno iniziato a prescrivere farmaci, che in precedenza venivano associati solo a patologie di una certa gravità, con la convinzione che creassero dipendenza solo a un numero limitato di persone particolarmente predisposte. Non è stato così e, quando si è cercato di interromperne l’uso, chi li utilizzava è passato all’eroina. A questo punto è stato evidente, tutti coloro a cui erano stati somministrati oppiacei dovevano essere messi in terapia”.
Terapia che per voi non è rifugio in un altro farmaco?
“In Italia come anche nella nostra comunità non si usa una terapia farmacologica: noi cerchiamo di curare la dipendenza, non di ridurre il danno. Il nostro approccio è principalmente educativo. Fra poco arriveranno dagli Stati Uniti due giovani medici che rimarranno in comunità un mese, proprio per conoscere il metodo derivato dalla nostra esperienza”.
Quindi le terapie farmacologiche possono avere inferiori probabilità di riuscita?
“Ovviamente se la terapia sostitutiva riguarda eroinomani può salvare delle vite. Ma si muore anche per l’utilizzo di anfetamine e cocaina. I farmaci in questo caso non risolvono, tamponano. Chi usa sostanze ha problemi che vanno ricercati in profondità nella coscienza”.
Avete o avete avuto fra i vostri ospiti ragazzi che provenivano dagli USA?
“Ne abbiamo accolti complessivamente 16. Attualmente non ci è consentito, poiché i consolati italiani non rilasciano visti per cure mediche. Ci stiamo muovendo comunque per risolvere il problema, che dovrebbe essere superabile, essendo iscritti nell’elenco delle strutture aderenti al registro del Servizio Sanitario Nazionale”.
Può essere che si parli sempre meno delle droghe e dei loro effetti?
“Sì è vero se ne parla soltanto se legate a qualche evento drammatico. In Italia per fortuna non c’è al momento una grave emergenza, il fenomeno riguarda come sempre principalmente gli adolescenti che, non avendo punti di riferimento si rifugiano nelle sostanze”.
Quindi durante l’adolescenza il rischio di essere sedotti dalle droghe è maggiore?

“Diciamo che il primo incontro può iniziare in questa fase della vita. Alcuni le useranno per brevi periodi, altri le continueranno a usare, altri passeranno da una droga all’altra, fino ad arrivare a quelle pesanti”.
In Italia grazie anche alla vostra metodologia si è riusciti a stabilizzare il problema?
“Sicuramente il picco si è avuto attorno agli anni ’80 dove un’intera generazione è scomparsa, chi non moriva per overdose si ammalava di HIV o epatite. Le mortalità di adesso sono lontanissime da quelle di allora. Chi assume droghe ai giorni nostri rischia sicuramente meno di morire, anche se avrà con molta probabilità problemi psicologici causati dal tipo di reagenti chimici presenti all’interno di questi veleni”.
Come prosegue lo studio dell’Università di Bologna sul vostro metodo di cura?
“Ci sono stati due studi molto importanti al riguardo, ma sono datati. Uno risale al 1995 e l’altro al 2005, entrambi in collaborazione con il Dipartimento di Sociologia. Attraverso un finanziamento che proviene dalla fondazione statunitense “Friends of San Patrignano”, adesso ci stiamo concentrando su un altro progetto. Stavolta coadiuvati dal dipartimento di psicologia e statistica sempre dell’Università di Bologna.
L’intento è quello di aggiornare i nostri dati storici in merito ai successi ottenuti. Lo studio dovrebbe iniziare nel 2024. Il campione riguarda ragazzi che saranno seguiti nell’ultimo anno di permanenza in comunità e nei successivi due. Cercheremo di capire se sono intervenute ricadute, quali possono essere i fattori protettivi o cosa può non aver funzionato in caso di insuccesso”.
Quanto può durare il percorso di un ragazzo che si rivolge a voi?
“I percorsi sono personalizzati e possono durare massimo tre anni. È evidente che se entra un padre di famiglia non possiamo tenerlo tutto questo tempo”.
Il lavoro che viene svolto in comunità dagli ospiti è retribuito?
“Si tratta di percorsi formativi, per cui non è retribuito. Soltanto chi lo desidera alla fine dell’ultimo anno può accedere a uno stage semestrale remunerato. Il compenso può aggirarsi attorno ai duemila o tremila euro, che potranno servire per affittare una casa, spostarsi, riallacciare le trame nel mondo, una volta usciti”.

Si può parlare di un identikit del tossicodipendente?
“Non esiste un ritratto specifico, ma possono esserci quattro gruppi di provenienza. al primo appartiene chi ha già una famiglia, sopra i 35 anni, dipendente da cocaina, a cui spesso si associano altre dipendenze come alcol e ludopatia. Nel secondo gruppo possiamo trovare chi ha iniziato a fumare canne a 15/16 anni, per passare successivamente alla cocaina e al crack. Inoltre troviamo quello in cui sono inseriti solo i consumatori di crack, con età fra i 25 e i 30 anni, che hanno sviluppato fin dall’inizio una dipendenza verso questa sostanza, alla quale aggiungono eroina per cercare di disintossicarsi. Infine un quarto delle persone che arrivano nel nostro centro usano ancora le siringhe per iniettare cocaina e eroina e sono le più a rischio di overdose”.
Ci sono concrete prospettive affinché il vostro metodo possa essere esportato all’estero?
“Ci auspichiamo possano essercene. Abbiamo oltre 40 anni di storia alle spalle, a tratti anche drammatica e San Patrignano poggia le sue fondamenta proprio sul suo passato. Il nostro metodo è nato in questo contesto, dove abbiamo potuto osservare, vivere e curare anche senza farmaci. L’interpretazione della dipendenza come “malattia del cervello”, particolarmente radicata nella cultura medica, non lascia molto spazio ai trattamenti non farmacologici. L’obiettivo è sempre più la riduzione del danno piuttosto che il recupero”.
Ha un ricordo in particolare legato agli oltre 26 mila ragazzi che avete ospitato in questi anni?
“Non sono un numero, sono persone, con alle spalle spesso storie terribili. Una parte di loro, la maggior parte ci auguriamo, attraverso il nostro percorso è riuscita a risolvere i problemi o quantomeno a ottenere gli strumenti per affrontarli, ma il nostro pensiero si sofferma su chi non è riuscito a farcela”.
Qualche nuovo progetto su cui state lavorando?
“Cerchiamo di rendere sempre più personalizzato il percorso di chi si rivolge a noi. Quello che osserviamo, a prescindere da quanto e cosa assumono, è che alla base della dipendenza vi sono vicende gravi che risalgono all’infanzia. Garantire a tutti, anche a coloro che hanno sviluppato traumi, trattamenti specifici è un nostro futuro obiettivo”.