Sono ancora tante, troppe le domande rimaste in sospeso sul coronavirus e la gravità delle conseguenze che questa pandemia sta avendo in questi giorni negli USA e che potrebbe ancora avere in Italia. Noi, per esempio, continuiamo a chiederci: ma perché nel Nord Italia il virus fece così tanti morti in percentuale agli infettati in Italia, mentre la popolazione meridionale della penisola e delle isole ne è stata quasi immune? Perché negli USA l’epidemia ora sta esplodendo in un modo che sembra inarrestabile quando, fino a qualche mese fa, sembrava invece che il peggio fosse passato?
Quando i dubbi e le paure superano un livello di soglia sopportabile, noi almeno abbiamo la fortuna di lavorare in un giornale che si avvale, tra i suoi più autorevoli collaboratori, di uno scienziato di fama mondiale come il Professor Antonio Giordano, così questa opportunità la sfruttiamo fino in fondo per chiarire quello che sta accadendo e che potrebbe ancora accadere.
Quindi ecco una nuova intervista al nostro columnist di “Terra medica”, sperando che anche voi siate confortati dall’informazione chiara e diretta sul Covid-19 che ci fornisce il Dr. Giordano. Una “bestia” pericolosa come il Covid-19 si sconfigge non con la propaganda politica, ma solo attraverso la conoscenza e auspicando la ricomposizione, a livello non solo nazionale ma mondiale, di una strategia unitaria che si avvalga del supporto della ricerca scientifica.

Professor Giordano, lei è il direttore dello SHRO “Sbarro Health Research Organization” della Temple University di Filadelfia. Ci potrebbe spiegare nello specifico di cosa si occupa? Attualmente in cosa è impegnato?
“Lo Sbarro Health Research Organization è un centro di ricerca principalmente focalizzato sullo studio in ambito oncologico (Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine). Più dettagliatamente, la mia attività di ricerca, da quando nel 1993, ho individuato e clonato il gene oncosoppressore RBL2/p130, si è concentrata sullo studio dei meccanismi di deregolazione del ciclo cellulare nel cancro.
Come noto, il tumore è una patologia multifattoriale per cui, tra le varie cause dello sviluppo, rientra l’esposizione ad inquinanti ambientali. Mi occupo di studiare precise alterazioni molecolari al fine di identificare nuove strategie terapeutiche per il mesotelioma ed il tumore al polmone, la cui eziologia è correlata, appunto, all’esposizione ad inquinanti ambientali. Contestualmente, da anni, mi interesso alla situazione campana, meglio nota come “Terra dei Fuochi”, incoraggiando studi di biomonitoraggio, per incentivare attività di bonifica e provare a far ridurre l’incidenza di svariate patologie. Ancora, valuto le potenzialità benefiche di alcuni alimenti che possono apportare benefici in termini di prevenzione e di miglior efficacia di trattamenti chemioterapici. Infine, mi sto dedicando, attivamente, allo studio del nuovo virus Sars-Cov 2. Tutti questi studi sono solo apparentemente scollegati tra loro, ma il fine ultimo e comune è di migliorare la qualità della vita dei pazienti e ridurre l’insorgenza di patologie severe”.
Lei sta coordinando una ricerca su un probabile scudo genetico che potrebbe aver protetto il Sud Italia dal Covid 19. Potrebbe parlarci nel dettaglio di questo studio? Questa sua ricerca che cosa ha permesso di stabilire?Come è giunto a tale conclusione? Potrebbe spiegarci che cos’è il sistema antigenico dei leucociti umani, ovvero l’HLA, e qual è il suo ruolo chiave nel Covid 19? Gli alleli del HLA che cosa sono in grado di innescare?
“Io ed i miei collaboratori abbiamo avallato l’ipotesi (e pubblicato sulla rivista Frontiers Immunology) che esista una forma di difesa stampata nel codice della vita. In particolare, riteniamo che esistano di una serie di varianti di geniche del gene HLA che potrebbero essere alla base della suscettibilità alla malattia da Sars-CoV-2 e della sua severità. Ovviamente, saranno necessari ulteriori studi caso-controllo su larga scala per dimostrare questa correlazione, ma esistono solide basi per pensarlo.
In Italia abbiamo assistito ad una diffusione virale completamente diversa tra Nord e Sud. Il fatto che il Nord sia stato duramente colpito può essere dovuto, quindi, ad una serie di fattori: genetici appunto, ma anche legati all’inquinamento ambientale legato all’industrializzazione che può essere stata anche la causa di maggiori spostamenti.
Brevemente, gli antigeni leucocitari umani (HLA) sono geni che codificano per le proteine responsabili della regolazione del sistema immunitario nell’uomo. Quindi, gli HLA sono elementi essenziali per la funzione immunitaria. Essi sono importanti nella difesa contro le malattie e svolgono un ruolo pregnante nel rigetto nei trapianti di organi.
Possono proteggere o se alterati non proteggere.
Ancora varianti geniche possono essere associate a diverse sintomatologie, o ancora mutazioni in HLA possono essere collegate alle malattie autoimmuni. Pertanto, come detto precedentemente, esistono le basi per indagare sul tipo di HLA e la sintomatologia Covid”.

Questa sorta di difesa potrebbe essere simile a quelli di alcuni soggetti sardi che presentano un “deficit del G6PD”, che provoca in loro il cosiddetto favismo, ma come pro ha la caratteristica di proteggerli dalla malaria?
“Nell’epoca della medicina personalizzata, della medicina di precisione, conoscere come la sequenza genica possa influire sulle varie patologie è fondamentale. Le attuali tecnologie ci consentono di studiare e monitorare migliaia di geni contemporaneamente. Tutto questo ci da’ la possibilità di ottenere la miglior cura per il singolo paziente riducendo al minimo gli effetti collaterali e migliorano molto la qualità della vita dei malati. Quindi, si, geni varianti geniche specifiche di una popolazione potrebbero in qualche modo proteggerli da eventuali insulti”.
Considerando il popolo sardo, però, parlando di scudo genetico, per quale motivo anche in questo caso la maggiore incidenza del contagio è avvenuta nel nord dell’isola piuttosto che nel sud?



“Dopo mesi di studi incessanti per poter caratterizzare i meccanismi molecolari del nuovo coronavirus Sars-CoV-2, oggi abbiamo una visione piuttosto chiara almeno riguardo la diversa sintomatologia ad esso correlata. L’infezione presenta un quadro clinico estremamente eterogeneo:
1) può essere grave da causare la morte,
2) lieve da sembrare una comune influenza stagionale e
3) addirittura non mostrare nessun segno clinico, essere asintomatica.
Anche le possibili spiegazioni riguardo questo fenomeno possono essere varie:
1) si è passati da una prima accusa di sottovalutazione del virus per poi arrivare
2) ad una cattiva gestione del triage ospedaliero che ha reso le strutture sanitarie stesse focolai di infezione.
3) Ancora c’è stata la diatriba su: morire “con” o “per” poiché la mortalità Covid-19 correlata colpiva principalmente le fasce più suscettibili di persone (anziani o pazienti affetti da altre patologie).
Come ho anticipato nella risposta precedente conoscere i geni per comprendere le diverse risposte a determinate malattie è sicuramente un aspetto chiave per comprendere i meccanismi molecolari del virus”.

Da chi è composto il suo team? Qual è stato il principale oggetto di studio della sua ricerca?
“Sono direttore di un centro di ricerca presso la Temple University di Philadelphia, sono professore all’Università di Siena e dirigo a livello scientifico una linea di ricerca del INT Pascale di Napoli. I laboratori italiani ed americani sono molto più che collegati, i ricercatori sono costantemente in collaborazione e tutti gli italiani del mio team hanno potuto effettuare un periodo alla Temple. Come ho già detto i miei studi sono tra loro interconnessi: la ricerca sul cancro ormai è imprescindibile dai fattori ambientali, così come gli studi sull’alimentazione e sui danni che subisce il DNA. Il fine ultimo è di ridurre l’insorgenza di malattie croniche-degenerative, tra cui principalmente il cancro. In America probabilmente è più semplice fare ricerca, per via di una gestione burocratica più snella, ma spero che la pandemia abbia fatto chiarezza sul fondamentale ruolo che ha la ricerca a livello mondiale e, che, quindi, venga incentivata la scienza anche in Italia”.
Voi escludete che l’incidenza maggiore dei contagi sia attribuibile all’inquinamento?
“Per quanto riguarda l’inquinamento ambientale e la diffusione del covid19 sicuramente è lecito ipotizzare un possibile legame. Alcuni studi, seppur con limitazioni metodologiche, hanno individuato una correlazione tra alti tassi di mortalità nel Nord Italia ed alte concentrazioni di particolato atmosferico (PM2.5 e PM10). Si potrebbe proporre che l’inquinamento potrebbe influenzare la progressione dell’epidemia COVID-19 in modo diretto o anche indiretto. Più dettagliatamente, il particolato potrebbe fungere sia da “vettore” virale che come “fattore di potenziamento” dell’infezione. Per quanto riguarda il primo aspetto, sono in corso alcuni studi che ricercano la presenza di copie virali del Sars-CoV-2 proprio in queste particelle.
Nel secondo caso, invece, è ben noto che l’inquinamento atmosferico è una delle principali cause delle malattie respiratorie al mondo, l’inquinamento atmosferico da PM 2.5 e PM 10, subito dopo dieta, fumo ed ipertensione è uno dei fattori di rischio più importanti per la salute e causa, ogni anno, 2.9 milioni di morti premature in tutto il mondo. Un’ alta concentrazione di particolato rende il sistema respiratorio più suscettibile alla infezione e alle complicanze della malattia da coronavirus. L’ipotesi di un possibile collegamento tra la diffusione del COVID-19 e l’inquinamento atmosferico è senz’altro interessante”.
Molti sostengono che il virus abbia perso potenza e che perciò non sia pericoloso come prima. Lei cosa ne pensa?
“Da un punto di vista scientifico non vi è alcun razionale per poter passare in modo immediato da una chiusura totale ed obbligatoria ad un tale stato di libertà e condivisione. Il virus continua a circolare e non vi sono dati realistici che, al momento, ci possano far affermare che il virus sia mutato in una forma più benigna. A livello di sequenza virale, quella mostratasi a gennaio è ancora la stessa che potrebbe approfittare di atteggiamenti poco responsabili per continuare a diffondersi. Potrebbe sembrare una malattia più mite, meno insidiosa, ma anche in questo caso, invece, la variazione è avvenuta nella popolazione clinica piuttosto che nel virus. Innanzitutto le fasce più suscettibili, le persone più a rischio sono state tutelate, poi, a tempi record, la scienza ha dettato direttive migliori su come trattare la patologia, si è passati da una “medicina di guerra” ad una “medicina normale”. Quindi, questo cambio della popolazione clinica non deve trarre in inganno, tutti auspicano ad un cambiamento repentino del virus ma fin quando non si avrà la certezza è eticamente corretto tutelare le persone a rischio”.
Come possiamo proteggerci dal contagio?
“L’utilizzo di dispositivi di protezione individuali e il dovuto distanziamento è ancora fortemente raccomandato. Per citare un vecchio spot pubblicitario: “Prevenire è meglio che curare”.
Le mascherine sono e devono essere considerate un presidio medico efficace. È fondamentale ignorare e sopportare i fattori limitanti legati ad esse associati (come non troppo sostenibili nel lungo periodo o limitanti nel comportamento), poiché un loro corretto utilizzo (almeno 80% della popolazione) è in grado di determinare una riduzione della diffusione virale in modo consistente”.

Prof. Giordano, negli USA il Covid-19 ha fatto già 150 mila morti: secondo lei è stata una perdita di vite inevitabile che andava messa nel conto della lotta alla malattia in attesa dell’arrivo di un vaccino o ci sono responsabilità gravi e qualcuno ha fatto errori colossali? Chi? E se le fosse stata data l’opportunità, lei che consiglio avrebbe dato?
“La pandemia Covid-19, con leggero ritardo rispetto all’Italia, ha colpito tutti i 50 stati americani e ormai si sono oltrepassate le 150mila morti. In America, purtroppo, si sta assistendo ad un aumento dei casi e anche dei casi che necessitano di ospedalizzazione. Gli USA si sono mostrati frammentati da subito, errore probabilmente fatale. Dopo la fase 1, fase in cui si è cercato di contenere il coronavirus attuando ampie restrizioni su ogni aspetto della vita pubblica, adottando misure drastiche e ponendo una stretta a livello federale, si è verificata di nuovo una scelta non univoca di gestione della fase 2.
La riapertura, più o meno totale, è stata diversa per ogni stato: la mappa dei paesi americani che hanno cominciato ad allentare le misure restrittive sembra aver seguito criteri geografici, sociologici e ideologici. Bastava seguire in modo rigoroso le regole dettate dal Center of Disease Control (CDC) e invece, la riapertura prematura, per esempio, del Texas, Arizona, Georgia, Alabama, Oregon ha avuto un andamento direttamente proporzionale all’aumento dl numero dei contagi. Ancora, l’epidemia ha messo a nudo tutti i limiti di un sistema sanitario privatistico nonostante l’amministrazione Trump stia valutando una proposta di intervento di svariati miliardi di dollari per un sostegno diretto ai cittadini e all’economia. Per massimizzare le possibilità di successo per porre fine alla pandemia da Covid-19, bisogna che ci sia uno sforzo coordinato globale soprattutto unitario. Evitare incomprensioni (reali o mediatiche) come quella tra Trump e Fauci ed accelerare la risoluzione del problema”.