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March 17, 2018
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Emergency USA: Elie e Lisa ci raccontano le due facce della stessa medaglia

Il Direttore Esecutivo e l'infermiera ci mostrano il volto di Emergency USA, uno attraverso il fundraising e l'altra attraverso l'esperienza sul campo

Michela DemelasbyMichela Demelas
Emergency USA: Elie e Lisa ci raccontano le due facce della stessa medaglia
Time: 6 mins read

Emergency è un’associazione non-profit che lavora con l’obiettivo di offrire cure mediche e chirurgiche gratuite e di alta qualità alle vittime di guerra, mine antinuomo e povertà. E noi italiani lo sappiamo bene, perché è ben radicata nel nostro territorio e nella nostra cultura. Abbiamo sentito parlare di Gino Strada a scuola, in televisione e nelle piazze. Ma si può dire lo stesso della sua succursale negli States, che compie ormai 10 anni quest’anno?

Emergency è nata a Milano nel 1994, e sin dall’inizio la sua campagna si è impregnata di “pace”, “solidarietà” e “rispetto per diritti umani”. Sono stati istituiti progetti in 18 paesi differenti, e sono stati tutti peculiari, prevedendo la ristrutturazione di strutture sanitarie già esistenti e la costruzione di nuovi ospedali, centri chirurgici, centri di chirurgia cardiologica, centri di riabilitazione, centri pediatrici, cliniche e centri di maternità.

Il primo progetto è stato in Ruanda, dove avevano restaurato e riaperto il dipartimento di chiurgia e riallestito quello di ginecologia e ostetricia. E dal Ruanda, Emergency è arrivata in varie zone del mondo, tra cui Iraq, Afghanistan, Cambogia, Serbia, Eritrea e Palestina. Zone di guerra, povertà e crisi. Oggi, lavora in 7 differenti Stati e, nel frattempo, ha iniziato a internazionalizzarsi attraverso la creazione di organizzazioni locali e gruppi volontari in Paesi differenti. Attualmente esistono infatti Emergency UK, Svizzera, Giappone, Belgio, Hong Kong e Emergency USA, che ha sede a Midtown, New York.

Elie Rubinstein, Direttore Esecutivo di Emergency USA

Con il proposito di conoscere meglio l’organizzazione italiana, dal punto di vista di chi ci lavora dalla Grande Mela, abbiamo fatto qualche domanda al Direttore esecutivo di Emergency USA, Elie Rubinstein.

Qual è la peculiarità di Emergency e dei suoi progetti?

“Sin da quando è stata fondata, Emergency ha curato 9 milioni di persone in tutto il mondo – un paziente ogni due minuti se consideriamo il periodo di 24 anni. Senza contare che ai nostri pazienti viene garantita assistenza chirurgica e medica di alto livello, totalmente gratuita, e portata avanti senza alcuna discriminazione. I programmi che supportiamo offrono assistenza medica e chirurgica gratuita e di alto livello nelle aree devastate dalla guerra. Emergency ha investito su 60 ospedali, cliniche e centri di primo soccorso in tutto il mondo. Tutte le strutture sono progettate, costruite e gestite da noi. Nel 1994, la missione di Emergency era quella di fornire assistenza chirurgica alle vittime delle guerre civili. Ma col tempo, l’organizzazione ha ampliato il suo mandato e adesso si prende carico di molte altre iniziative, che siano umanitarie o di sviluppo, non solo indirizzandosi verso i bisogni delle vittime dei conflitti armati, ma anche di quelle che soffrono di tutte le altre conseguenze che quei conflitti armati portano, che siano fame, povertà, malnutrizione, malattie, mancanza di assistenza sanitaria o educazione”.

Qual è l’aspetto dei progetti di Emergency che trova più innovativo?

“Trovo innovativo il fatto che il nostro staff internazionale fornisca dei training approfonditi al personale locale, con l’obiettivo di permettere alle autorità sanitarie locali le competenze per gestire le strutture mediche, non appena la sostenibilità venga raggiunta. Ci sono molte organizzazioni che forniscono assistenza medica gratuita nei paesi che ne hanno bisogno. Ciò che rende Emergency differente dagli altri, è proprio il fatto che costruiamo ospedali e centri medici dove lavoriamo, assicuriamo il miglior livello di prestazioni – offrendo training teorico e pratico allo staff locale – così che possano diventare autosufficienti e indipendenti. Crediamo che il trattamento medico sia un diritto umano fondamentale e che debba essere accessibile a tutti; e per essere accessibile a tutti, deve essere completamente gratuito; e per essere efficiente, dev’essere di eccellente qualità. I risultati del nostro lavoro nel campo parlano da soli, come anche il crescente supporto e riconoscimento da parte di soggetti internazionali. Gino Strada, fondatore e direttore esecutivo della ONG, ha ricevuto nel 2015 il Right Livelihood Award – definito Premio Nobel Alternativo –  “per la sua grandiosa umanità e abilità nel fornire eccellenti servizi medici e chirurgici alle vittime di conflitti e ingiustizie, e nell’affrontare senza paura le cause della guerra”. Nel febbraio 2017, è stato anche investito del Sunhak Peace Prize e, in aggiunta, Emergency era una delle candidate agli Oscar, nel 2013, per il film-documentario “Open Heart” (Cuore Aperto), che parla di otto bambini ruandesi portati da Emergency al centro chirurgico Salam in Sudan”.

Come è nata la succursale di Emergency USA?

“Emergency USA fu fondata nel 2008 da un gruppo di volontari dedicati, che crearono un network internazionale per supportare i progetti di assistenza sanitaria di Emergency attraverso advocacy, raccolta fondi e reclutamento di staff medico”.

Quali sono ora, a distanza di 10 anni dalla vostra nascita, i piani per il futuro?

“Nel 2018, Emergency USA ha tre grandi obiettivi: aiutare a ricostruire il sistema sanitario nella Sierra Leone post-ebola, rafforzare il centro di riabilitazione e reintegrazione sociale a Sulaymaniyah, Iraq del Nord, e supportare la costruzione del nuovo ospedale pediatrico-chirurgico a Entebbe, Uganda”.

E quali sono gli ostacoli maggiori che state incontrando per quanto riguarda la loro realizzazione?

“Sono davvero grato per quest’opportunità di introdurre Emergency ai lettori. Infatti, uno dei principali problemi che incontriamo è quello di farci conoscere dal pubblico. Come moltre altre organizzazioni, usiamo i social media per comunicare ma non è abbastanza. E’ vero che c’è un largo supporto nazionale ad Emergency in Italia, ma noi abbiamo la sfida di farci conoscere negli Stati Uniti. E il nostro budget è davvero piccolo in confronto ad altre Non-profit. Stiamo cercando quindi di farci conoscere, offrendo lezioni mensili di lingua italiana, partecipando a vari eventi sociali e eventi sportivi – per esempio, siamo partner ufficiale della Maratona di Los Angeles che si terrà il 18 Marzo”.

Lisa Rowland, infermiera di New York, in missione in Iraq

Ma Emergency USA non è solo fundraising, management e progetti. Abbiamo intervistato Lisa Rowland, che, per esempio, un’infermiera di New York che ha partecipato ad alcuni progetti di Emergency, organizzazione che trova tutta il suo senso a partire dallo staff che lavora sul campo.

Che esperienze ha fatto, collaborando con Emergency?

“Finora con Emergency ho intrapreso tre missioni. La prima, nel 2014, era una missione di tre mesi in cui sono stata la coordinatrice medica in un progetto riguardante gli sfollati iraqueni in Khanagin e Kalar. La seconda volta è stata da gennaio a dicembre 2016. Ho ricoperto il ruolo di responsabile per la promozione della sanità, lavorando in un campo siriano per rifugiati e in quattro campi iraqueni a Arbat, Kalar, Kurdistan. Alla terza missione, più recente, ho partecipato in qualità di infermiera nell’ospedale chirurgico di Goderich, Sierra Leone”.

Le piacerebbe dirci di più rispetto alla situazione che affligge i rifugiati siriani, dal suo personale punto di vista?

“I rifugiati siriani che ho incontrato e con cui ho lavorato hanno lasciato ogni cosa di sé, molte volte andandosene solo con i vestiti in uno zaino, e magari qualche altra cosuccia. Lasciano le loro case a causa della guerra tra ribelli e governo, e a causa dell’ISIS. Molti hanno camminato distanze lunghissime, portando in braccio bambini o assistendo gli anziani. Una volta ho conosciuto un uomo anziano che aveva perso sua moglie e la sua famiglia durante i bombardamenti, ed era stato portato via da un suo vicino di casa, che lo ha portato in Kurdistan. Mi ha spezzato il cuore sentirlo parlare della moglie, della sua famiglia e del villaggio in cui era nato e dove si aspettava di morire. E il campo rifugiati siriano dove ho lavorato per Emergency era anche abbastanza tranquillo. I rifugiati sono stati lì per qualche anno e hanno ricevuto l’autorizzazione per costruire, quindi il sembra quasi di vivere in un piccolo villaggio, che ormai raggiunge 7500 persone. Comunque, l’elettricità, come anche l’acqua, restano un problema, non c’è molto da fare per i bambini, e le scuole sono sovraffollate e senza fondi. Gli adulti hanno difficoltà a trovare lavoro”.

Le piacerebbe raccontarci della sua esperienza personale in quell’ospedale?

“Emergency ha stabilito una clinica di assistenza sanitaria di base, aperta 24su24. Le consultazioni con i fisici erano 6 giorni alla settimana dalle 8am alle 4pm. Dopo le 4pm, due infermiere erano sempre disponibili a occuparsi, con un’ambulanza, di casi urgenti e critici negli ospedali fuori dal campo. Grazie alla cooperazione con il Ministero della Salute, erano disponibili servizi di salute riproduttiva, vaccinazioni e consulenze sull’alimentazione. Tutti i farmaci, le analisi e assistenze erano, e sono, gratuite. La promozione della salute era garantita quotidianamente nella clinica e nelle attività di sensibilizzazione all’interno del campo, come campagne per la salute e laboratori nelle scuole e negli asili per promuovere le scelte salutari. Alcuni dei rifugiati avevano parenti che avevevano affrontato il lungo viaggio verso l’Europa. E quando questi ricontattavano chi era rimasto, parlavano di come le condizioni nel nostro campo fossero ampiamente migliori che in Europa, e che se ne sarebbero dovuti ‘restare dov’erano’”.

Quali sono gli aspetti positivi, quali quelli negativi, nel lavorare con Emergency nelle aree colpite dalla guerra?

L’aspetto più gratificante è essere capaci di usare le tue conoscenze e la tua esperienza per fornire assistenza medica alle popolazioni più vulnerabili. Inoltre, è una soddisfazione essere parte di un team internazionale, e beneficiare degli scambi di conoscenza che derivano da questo.Tuttavia, il lavoro lì può essere davvero stressante, sia a causa del contesto e sia a causa dei lunghi turni”.

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Michela Demelas

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