E’ di un mese fa la notizia che non avremmo voluto ricevere benché ce la aspettassimo da tempo: dal Rapporto annuale “Osserva Salute” del 2015, realizzato dall’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane insediato presso l’Università Cattolica della capitale, si evince che l’aspettativa di vita nel nostro Paese cresce ancora ma crescono anche fenomeni preoccupanti. In sintesi, sono venute meno le condizioni per un miglioramento continuo e senza condizioni del nostro benessere psico-fisico. Tra il 2010 e il 2014 il numero di decessi è cresciuto di oltre 54.000 unità. A differenza di altri indicatori, quelli di salute si registrano con un certo ritardo per la difficoltà di misurare i fenomeni estremamente complessi che vi stanno alla base e che fanno dell’epidemiologia sociale una delle leve conoscitive cruciali per il governo delle politiche pubbliche. In ogni caso, i nodi sono venuti al pettine. Nonostante un generalizzato ma modesto miglioramento degli stili di vita e della maggior parte degli indicatori che li descrivono (consumo di alcool e tabacco, svolgimento di attività sportiva, consumi alimentari), gli autori del rapporto indicano nei consistenti tagli della spesa sanitaria (da 112,5 miliardi di Euro del 2010 a 110,5 del 2014), nell’invecchiamento spinto della popolazione (più fragile ma anche più esposta agli eventi climatici estremi, al caldo) e nella persistenza di abitudini dannose per la salute le cause principali delle morti in più.
Siamo davanti a un settore che si contrae, soprattutto per via del mancato rispetto dei livelli essenziale di assistenza nella prevenzione dei rischi di salute – in particolare nelle Regioni che sono in un regime dietetico forzoso nel rispettare piani di rientro economico-finanziario e per la riduzione consistente del personale data prevalentemente dal blocco del turn over.
Siamo altresì di fronte a una palese incoerenza, propria non solamente del settore sanitario (le stesse argomentazioni si possono fare per l’istruzione e la ricerca): l’Italia continua a collocarsi come fanalino di coda nella spesa “buona”, considerata tale quando non la si può considerate un semplice (per quanto dovuto o necessario) costo di carattere “assistenziale”, quanto un “investimento” perché in grado di generare ritorni economici e sociali in futuro.
Il cosiddetto Social Investment Approach e la retorica che lo accompagna prende abbrivio alla fine degli anni 90’ nel solco della Terza Via blairiana, per riconvertire le asfittiche politiche di welfare in senso positivo, in grado di promuovere la capacità dei singoli (individui e famiglie, gruppi intermedi) di tutelarsi dall’insicurezza. Si tratta di un welfare che non protegge gli individui dal mercato, ma che li rende più forti e capaci di stare nel mercato. Si invoca allora un’integrazione tra dimensioni sociali ed economiche delle politiche pubbliche, chiamate sì a proteggere e sostenere gli individui, ma anche a promuovere la crescita economica e la competitività di comunità e territori. Efficienza ed equità, in questa visione, non sono in contraddizione.
“La salute, oltre a essere di per sé un valore, è anche un requisito per la prosperità economica” e la spesa in sanità, specie nelle attività di prevenzione, è da considerarsi come “spesa efficiente”, recita il Social Investment Package (SIP) propugnato dalla Commissione Europea. Indicazioni accolte, almeno a parole, dal Governo Renzi.
Al di là di tutte le criticità di questo approccio, messe in evidenza da numerosi studiosi per il nostro Paese e non solo, stando alle statistiche del Rapporto “Osserva Salute”, ci stiamo allontanando non poco dagli obiettivi che ci siamo dati nel 2013, allorquando aderimmo al SIP. Certo la crisi non ha da questo punto di vista contribuito, ma la spesa calante in salute e in istruzione men che meno. Non aiuta neanche il mercato delle assicurazioni o delle mutue sanitarie private: le spese sanitarie legate alla prevenzione non si rimborsano o quasi. E allora l’equazione “più in salute= più produttivi=meno bisognosi di aiuti pubblici e di politiche di assistenza”, lemma del Social Investment Approach, rischia di restare nel cassetto dei sogni, anche in un sistema sanitario in apparenza universalistico e di eccellenza come il nostro”.