In Iran non tendono a placarsi le proteste che da giorni infiammano il paese a causa della morte della giovane Mahsa Amini, fermata e poi arrestata con l’accusa di non aver indossato correttamente il hijab (velo islamico). Questa vicenda ha innescato profonda indignazione in tutto il paese precipitato da tempo in un clima di tensione, segnato dalle pesanti limitazioni e provocazioni ai danni delle donne. Nonostante le dure repressioni i manifestanti continuano a resistere sfidando apertamente i valori della Repubblica Islamica, cercando di indebolirne l’assetto per ottenere concessioni sui diritti civili.
È possibile rimanere fedeli alle tradizioni pur guardando al futuro? Ne abbiamo parlato con Marwa Karakri, blogger e scrittrice che per sua definizione si definisce “femminista con il velo”.
Ci vuoi raccontare qualcosa di te?
“Ho 31 anni sono nata e cresciuta in Italia, anche se di origini marocchine. Appena sono divenuta maggiorenne e per mia scelta mi sono regolarizzata chiedendo anche la cittadinanza italiana. Mi occupo delle donne fin da quando ero piccola, seguendo l’esempio di mia madre che dopo essersi trasferita, capendo le difficolta che si potevano incontrare, ha iniziato a combattere per sé stessa e per le altre straniere. Lentamente è riuscita a costruire una rete di contatti, creando un dialogo con le istituzioni, aiutando le associazioni, da cui abbiamo avuto spesso in affido madri e minori. Avevo solo 15 anni quando ho iniziato a comprendere che la conoscenza della legislatura avrebbe potuto aprirmi delle porte, solo attraverso il suo studio avrei potuto cambiare il mondo e la società. Credo di aver maturato proprio in quegli anni la decisione di frequentare la facoltà di giurisprudenza.

Come si riesce a vivere attraverso le tradizioni di due Paesi?
I miei genitori hanno sempre cercato di trasmettermi la loro cultura senza farmi dimenticare le mie radici, quando ero piccola trascorrevo almeno tre mesi in Marocco fra Fès e Casablanca. Questo però non ha evitato in me il senso di non appartenenza, sono riuscita a sentirmi straniera in Italia e allo stesso tempo in Marocco. Capita soprattutto quando improvvisamente si inizia a parlare una lingua sconosciuta, quando si incontrano abitudini diverse, persino quando si mangiano cibi differenti. Il rischio è quello di perdere l’identità e con il trascorrere degli anni la fede, se poi sei una donna di terza generazione la questione si complica ulteriormente.
Pur definendoti femminista hai deciso di indossare il hijab perché questa scelta?
Ricordo che fu in estate, avevo circa dodici anni quando decisi di indossarlo. Ricordo che andai da mia madre dicendole che ero finalmente pronta, favorita anche dal fatto che avrei cambiato scuola e gruppo di amici, sarei andata alle medie dove avrei iniziato un nuovo percorso scolastico ma anche di consapevolezza. Rimase molto sorpresa e allo stesso tempo spaventata. All’epoca lei non lo indossava (solo alcuni mesi dopo di me inizio a coprirsi il capo per incoraggiarmi). Eravamo da poco partiti per il Marocco, e i mesi successivi li ha impiegati a rassicurare i conoscenti che la fermavano chiedendole il motivo di questa scelta. Erano anni difficili questi, eravamo nel 2002 subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle, in un clima di diffidenza e tensione dove i musulmani erano i nemici. Ho sempre considerato la possibilità di indossare il velo, forse io l’ho fatto prima, nella tradizione islamica il suo uso è suggerito al raggiungimento della pubertà.
Dopo aver intrapreso questa scelta sentii di aver compiuto un passo importante, era un rito di passaggio che celebrammo con una festa. All’inizio ho vissuto il suo utilizzo con gesti estremamente meccanici, slegati anche dagli aspetti religiosi. Solo successivamente verso i quattordici anni ho maturato quella che può essere definita fede. In quegli anni però arrivarono anche i primi attacchi e non solo da parte dei coetanei ma anche da parte degli insegnanti. Sono stata definita la ragazza con la tenda in testa quando non lo definivano – il cencio -. Tutti naturalmente davano per scontato che questa decisione l’avessero presa i miei genitori che non fosse spontanea. Nella mia famiglia invece si è sempre avuta una grande autonomia, seppure praticanti abbiamo sempre espresso la nostra fede sentendoci liberi. Io mi sento libera di essere religiosa, l’ho scelto.
In cosa consiste oggi il tuo supporto alle donne?
Il mio lavoro con le donne e per le donne è complesso, cerco di fare formazione e sensibilizzazione. C’è una discrepanza enorme in ogni caso fra quello che cerco di spiegare e quello che loro pensano sulla loro difesa personale. Sistematicamente mi trovo a chiarire che non devono sentirsi sottomesse e tantomeno essere maltrattate o picchiate. Ascoltando le loro storie ho potuto visionare la violenza in maniera indiretta ed è stato doloroso. Una donna che non conosce la cultura, la lingua del paese che la ospita e che si trova in una condizione di disagio può sentirsi drammaticamente sola. Grazie anche al nostro supporto, soprattutto quello di mia madre che ha fatto da ponte, siamo riuscite a creare sul nostro territorio la Commissione Pari Opportunità che è divenuta un punto di riferimento per le straniere. Sono stati creati il telefono rosa per l’ascolto e dei protocolli d’urgenza in caso di maltrattamenti. In questa realtà non giudicata e protetta cerchiamo di offrire il nostro aiuto anche attraverso le nostre esperienze. Si parla spesso pure dell’uso dell’hijab, cerco di spiegare che è una scelta di libertà, e che non ha alcun legame con la costrizione.
Quindi sempre dalla parte delle donne?
Sono femminista prima ancora di essere islamica e come tale ho il preciso compito di informare, di essere vicina a chi vive in una condizione di disagio a chi è discriminato. Il mio pensiero corre anche ai componenti delle comunità LGBT, come noi sono ritenuti degli estranei in patria, sono dei diversi e paradossalmente i nostri problemi sono comuni.
Hai un messaggio che vorresti lasciare in relazione a quanto sta capitando oggi nel mondo?
Ritengo che il vero incontro possa avvenire fra le storie che si intrecciano, osservandoci sono molte più le cose che abbiamo in comune rispetto alle differenze. Noi donne dovremo unirci e capire quali sono i nostri punti di forza, lavorando per far restare unita la comunità. Io continuerò a combattere per tutte quante, anche quelle che non vogliono coprirsi, sposarsi o avere figli.