Mi è sempre piaciuto il mio nome: Saman. Quando qualcuno lo pronunciava, aveva un suono così melodioso. Poi mi guardavo allo specchio ed ero brutta, bruttissima. Gli occhi nascosti dalle lenti degli occhiali, sormontati da sopracciglia che si congiungevano in mezzo al naso, che era un po’ lungo, la bocca no, quella era ben fatta e se sorridevo, ma dovevo sforzarmi, rivelava dei denti allineati e bianchissimi. Non era importante che fossi bella per i miei genitori, ma timorata, anzi era meglio che non lo fossi. Così nessuno mi avrebbe guardata, bramata. Certo, c’era poco da guardare, coperta dalla testa ai piedi, come volevano fossi, e comunque non era un bel vedere. Sembravo una di quelle vecchie suore cristiane che si dicono spose di Dio, ma sospetto sia perché nessuno le ha volute. Io invece sarei andata sposa nonostante la mia faccia da talpa. Ma io non volevo avere la faccia da talpa, io volevo essere carina come tante altre ragazze cristiane che mi passavano accanto per strada. Quelle ragazze potevano sposare chi volevano, tranne Dio. Ma potevano scegliere un uomo. Io invece non avevo libertà di scelta e sembrava che il mio promesso sposo mi avesse scelta senza vedermi. E solo perché glielo avevano ordinato i suoi genitori che si volevano imparentare con i miei. Era un affare di famiglie: vantaggi per entrambe. Per crescere e prosperare in ricchezza e potere di clan. Dicevano che era la legge di Allah, ma io credo che Dio sia uno solo, nonostante abbia tanti nomi, e mi domando come possa lasciare libere le cristiane e asservire noi musulmane. No, è solo una faccenda di convenienza familiare.
Voglio diventare come le altre – mi dissi – e non notare più quegli sguardi di disprezzo su di me. Voglio andare per strada a testa alta, come gli uomini e le donne italiane, i capelli al vento.
Comprai delle pinzette e mi sagomai le sopracciglia. Poi andai di nascosto da un oculista a farmi prescrivere le lenti a contatto. Scopersi che avevo delle lunghe ciglia nere e bastava appena un po’ di mascara per renderle lunghissime. Mi incipriai il viso per avere la carnagione più chiara e stesi un velo di gloss rosso sulle labbra. Sembrarono subito più carnose, come una fragola. Stirai i mei crespi capelli con spazzola e phon come avevo visto fare sul web. Scendevano setosi e lucenti sulle spalle. Mi guardai allo specchio: sembravo un’altra; ero la vera Saman, quella dall’aspetto melodioso.
Un giorno lui mi notò e mi disse che ero un bocciolo di rosa del giardino di Allah. Mi guardava come nessuno mai mi aveva guardata. Con stupore, con emozione, con desiderio. No, non era brama: non c’era nessuna pretesa o concupiscenza incontrollabile in lui. Era quasi un timore… era amore. Non so se fosse bello, ma il suo sguardo era bellissimo. E mi disse parole che nessuno mai prima mi aveva detto. Nemmeno i mei genitori quando ero piccola. Cominciammo a vederci di nascosto, ma a casa si insospettirono perché mia madre aveva notato che mi ero depilata le sopracciglia e che in armadio avevo la trousse del make up. Mi convocarono e io dissi che volevo essere più bella. “Tu non devi farti notare – ripeterono insieme severamente – sei promessa sposa in Pakistan”. In Pakistan?! Andare via dall’Italia?! Mi sembrava che mi scoppiasse il cervello e per la prima volta mi ribellai e urlai: “Perché mi avete fatta vivere in Italia, se poi dovrò tornare nel terzo mondo?” “Tu hai seguito la famiglia, tuo padre è venuto qui per fare soldi, ma tu sei solo una donna e devi obbedire ed essere utile alla famiglia. Qualsiasi cosa succeda, tuo marito manterrà noi da vecchi”. Ero stata venduta!
Non mi ero accorta che lo zio mi spiava, mi seguiva. Un giorno i mei genitori si avventarono su di me e mi riempirono di botte. Mi chiusi in camera, ma l’indomani fuggii. Andai in un comando di polizia e venni affidata ai servizi sociali. I miei scoprirono dove ero rifugiata e cominciarono a pregarmi di tornare a casa: “Sei sangue del mio sangue” diceva mia madre piangendo. Credetti fosse sincera. Ritornai. Dissimulavo, facevo finta che la mia storia d’amore fosse finita. Una sera si riunirono con mio zio e sentii la voce di mia madre dire: “Deve morire”. Mia madre, la più spietata, la mantenuta guardiana della discendenza patriarcale. Sono stata sgozzata come una capra sacrificale sull’altare della loro tribale cupidigia.
Ora sono qui, sepolta tra i rovi. Col mio sangue hanno lavato il loro onore. Ero stata deflorata: non avevo più un valore di scambio per loro. Per conoscere l’amore ho pagato con la vita.