Mentre l’Europa odierna sanguina per le morti causate da Foreign fighters islamisti, è giusto e corretto ricordare quando a causare morti e distruzioni in Europa erano gli stessi europei, irriducibilmente convinti di dover usare la violenza per prevalere nelle loro querelle interne. Si trattasse di questioni dinastiche (eredità territoriali e non solo), religiose (cristiani di opposte fazioni), identitarie (indipendenze e frontiere), commerciali (beggar-thy-neighbour), ideologiche (i totalitarismi del Novecento), fino all’avvento della prima Comunità europea nel 1951 violenza e guerra sembrarono essere percepiti dagli europei come strumenti necessari alla soluzione delle loro controversie interne.
In questo senso si può parlare di una storia, lunga quanto la civiltà del vecchio continente, che, sino alla metà dello scorso secolo, viene tessuta, salvo rare pause, soprattutto attraverso conflitti armati. Qualche autore, guardando a quel continuo azzuffarsi tra abitanti dello stesso continente, discendenti spesso della medesima cultura (greco-romana, fondante il cosiddetto Occidente), e adoratori salvo rare eccezioni del medesimo Dio cristiano, ha parlato di un’estenuante eterna “guerra civile” europea: così lunga ed estenuante da portare l’Europa lo scorso secolo, in soli trent’anni (1914-1945), nel baratro della divisione in due parti affidate, al termine della Seconda grande guerra, l’una agli Stati Uniti, l’altra all’Unione Sovietica.
Uno degli episodi più lunghi e significativi di tanta incivilissima guerra civile, fu senz’altro quello del quale si resero protagonisti la corona britannica da un lato e il popolo irlandese dall’altro. Un secolo fa, in quell’ambito, si diedero fatti decisivi: autoproclamati leader del popolo irlandese, povero e cattolico, insorsero contro il dominatore britannico, ricco e protestante, per affermare il diritto alla propria diversità e indipendenza.
Easter Rising, la rivolta del lunedì di Pasqua fu pianificata (male) dai repubblicani irlandesi, nella convinzione di poter conquistare con le armi, attaccando Dublino, ciò che non riuscivano ad ottenere in altro modo a Londra: l’interruzione dell’occupazione e del disprezzo che la corona d’Inghilterra riversava loro addosso. Nonostante una certa vivacità politica e culturale all’interno della comunità cattolica irlandese, tradottasi anche in conati insurrezionali in particolare durante la “primavera dei popoli” europea (1848), mai gli irlandesi avevano provato ad organizzare qualcosa del genere dopo i fatti del 1789, quando per diversi mesi i cattolici del regno d’Irlanda avevano tenuto in scacco le forze protestanti e filo britanniche dell’Ascendancy, prima di subire l’atto di Unione del 1800.
L’occasione venne dalle particolari condizioni createsi con l’avvio della Prima guerra mondiale e dal “bisogno” britannico di disporre anche degli irlandesi nel conflitto apertosi in Europa. L’esito sarebbe stato disastroso, visto che la popolazione non condivise la rivolta, e che questa venne repressa dai britannici in pochi giorni: sotto Patrick Pearse e James Connolly combattevano poco più di 6.000 volontari, mentre i britannici avevano a disposizione 17.000 uomini, quasi tutti professionisti arruolati nella polizia.
Ad un esame più attento di carattere esclusivamente politico, valgono però le parole di Michael Collins, che in quella Pasqua di sangue ebbe, con altri, il battesimo della direzione sul campo del movimento indipendentista: “Al momento della resa, l’insurrezione del 1916 è sembrata un fallimento, ma quello sforzo eroico e il martirio che lo ha seguito hanno infine svegliato lo spirito dormiente d’Irlanda”. Il fallimento costò relativamente poche vittime ai combattenti repubblicani che riportarono soltanto 64 morti, benché numerosi fossero i feriti. Enormemente maggiore fu il numero dei morti e feriti britannici. Ma a pagare lo scotto più alto furono indubbiamente la popolazione civile e i leader della rivolta. Tra le macerie di una città bombardata e semidistrutta con ferocia dagli occupanti, si contarono 254 morti e più di 2.200 feriti, grazie anche all’eccellente lavoro dei carri armati che, per la prima volta nella storia, Londra pensò bene di utilizzare nel feroce e insieme vigliacco tiro a segno di un teatro cittadino. I capi repubblicani finirono sotto corte marziale e furono condannati in massa a morte: sedici furono subito giustiziati.
Senza volerlo, gli occupanti britannici offrirono icone da condividere a un nazionalismo irlandese fortemente diviso al suo interno. Gli anni successivi sarebbero stati di aspro scontro tra repubblicani e Londra, che ce la mise tutta perché le cose andassero in quel modo e seppe anche giocare sulle ingenuità e passionalità del movimento indipendentista. Nel 1922 sorse la tanto agognata repubblica, ma fu monca di troppe contee considerate irlandesi dagli insorti del 1916: Michael Collins, che nella repubblica assunse importanti responsabilità di governo, pagò con la vita.
Il quasi millenario scontro anglo-irlandese si sarebbe concluso solo ai nostri giorni, non senza aver prima ammazzato tutto il possibile, sparando spesso nel mucchio coinvolgendo innocenti e incolpevoli: basti pensare al Bloody Sunday del 30 gennaio 1972 quando i para inglesi uccisero a sangue freddo a Derry tredici cattolici che manifestavano disarmati con tanti altri connazionali.
Dopo 3.200 morti lasciati sul terreno, il 10 aprile 1998 a Belfast Tony Blair, il premier irlandese Bertie Ahern e i leader di otto partiti nordirlandesi, mediatore l’ex senatore democratico statunitense George Mitchell, firmarono l’accordo di pacificazione. Dublino s’impegnava a modificare l’articolo della Costituzione con la rivendicazione alla repubblica della sovranità sull’Ulster britannico.
Al referendum di maggio, al piano di pace avrebbero detto sì quasi il 95% dei cittadini irlandesi e il 71% degli irlandesi dell’Ulster, i cattolici in stragrande maggioranza i protestanti a maggioranza risicata. A dicembre dell’anno successivo, sarebbe stato siglato il passaggio di poteri tra Londra e il parlamento nordirlandese, garantendo all’Ulster l’autogoverno di cattolici e protestanti. Anni dopo, nel 2007, il “papista” Gerry Adams e l’unionista protestante Ian Paisley si ritroveranno a concordare in pubblico, a Belfast, l’amministrazione congiunta della provincia: non si stringeranno la mano, ma a quel punto poco importa, gli inglesi possono ritirarsi.
Resta la Union Jack sulle sei contee dell’Irlanda del Nord dove i cattolici sono minoranza. Ma è tramontato il tempo dei protestanti armati e dei repubblicani che sognano la Repubblica democratica perennemente in armi contro il britannico teorizzata da Michael Collins, con il braccio esecutivo troppo simile agli assassini dell’Irish Republican Army.
In molti si chiedono a cosa serva il culto della memoria. A nulla, o persino al peggio, se non assiste nella comprensione del presente e non genera spirito critico sugli errori del passato. Ad esempio, guardando al manifesto della rivolta repubblicana di un secolo fa, firmato dai vari Clarke, Mac Diarmada, Pearse, Plunket, Connolly, non passa inosservato il richiamo iniziale e finale a Dio. “In the name of God and the dead generations …” è l’incipit. “We place the cause of the Irish Republic under the protection of the Most High God, Whose blessing we invoke upon our arms …” è l’appello finale. E’ un nome, quello del Sommo, chiamato ancora ai nostri giorni, anche nell’aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles, per giustificare assassini e strage. Almeno il Dio cristiano, come ribadito nei riti del venerdì santo, con Gesù accetta di essere ucciso, non uccide.
La celebrazione di Easter Rising sta avvenendo, nel Regno Unito e in Irlanda, nel rispetto del nemico di un tempo neppure troppo lontano, nella pietà che accomuna in un solo grande abbraccio coloro che morirono senz’altra colpa se non gli ideali di dignità o gli obblighi di appartenenza. Alle istituzioni europee va riconosciuto il merito di aver dato all’Irlanda le condizioni per lo sviluppo economico che l’ha aiutata a collocare nel giusto luogo della memoria miti e ricordi, così contribuendo a sopire un odio perenne e distruttivo.