Meno male che gli uomini non portano più la minigonna; altrimenti cosa potrebbe succeder loro con tutte quelle cristiane “assatanate” che sono in circolazione? Tanto per rispondere all’imam della moschea di Colonia che ha spiegato che “uno dei motivi per cui gli uomini musulmani violentano o infastidiscono le donne è per come vanno vestite. Quando se ne vanno in giro mezze nude e profumate, accadono certe cose. E’ come buttare olio sul fuoco”.
Sì, gli uomini portavano le gonnelline. Basta guardare qualche vaso greco per vedere ritratti gli eroi achei con le cosce muscolose che escono dalle corte tuniche. E tutti quei bassorilievi che raffigurano soldati, sacerdoti, financo re babilonesi e assiri o faraoni egizi in minigonna? Gli antenati degli islamici provocavano le donne tenendo ipoteticamente coperti i loro attributi, perché era tutto un gioco di vedo – non vedo, considerato che le mutande non erano ancora state inventate. I romani introdussero gli “ubligatula”, dal verbo latino “subligare”, che significa “legare sotto”; infatti si legavano dei tessuti intorno alla vita e poi tra le gambe. Ma appena nel 1500, e solo nelle famiglie nobili europee, s’iniziarono ad indossare le mutande. Strano, pensavamo le avesse introdotte Allah. Ah, neppure questa è un’invenzione da ascrivergli. E le donne? Anche loro, ai tempi del profeta, erano rigorosamente nude sotto. E nude si coricavano. Del resto a Mecca, città dell’Arabia Saudita, quando nacque Maometto nel 570 dopo Cristo, era adorata una dea: Al-lat: “la dea” ossia la realtà suprema sotto forma femminile. Egli le fu devoto fino a che non gli apparve l’arcangelo Gabriele rivelandogli che la divinità, sotto le vesti fluttuanti, era un uomo. Un genio questo Maometto, però: ha svelato il mistero del divino, dopo che per secoli, da Iside in poi, tutte le dee del Medio Oriente – ma era sempre la stessa – sostenevano: ”Io sono quella che è stata, quella che è e quella che sarà; nessun mortale ha mai sollevato il mio velo”. Anzi, Maometto ha attribuito questa frase direttamente ad Allah. Dopodiché ha legato le donne come salami con metri di spesso velo. Affinché la proprietà privata maschile non inducesse in tentazione e diventasse un furto.
E’ tuttavia singolare come invece, per la psicanalisi, il riconoscimento dell’altro sia innanzitutto uno svelamento, nel senso di privare del velo. Un atto d’amore in cui c’è la volontà di scoprire com’è l’altro da sé, così simile e così diverso. Il processo di riconoscimento, come il significato stesso della parola, comprende: identificazione, accettazione, dichiarazione, apprezzamento e infine consapevolezza. Ah, dimenticavo: le donne dovevano comparire davanti ad Al-lat completamente nude e girare ballando intorno alla sacra pietra nera che la rappresentava; la dea avrebbe accordato loro quello che chiedevano. Maometto distrusse la pietra, ma la dea fu adorata ancora per molto tempo. Era una dea triplice che corrispondeva alle età della donna. Le altre sue manifestazioni erano: Al-Uzza, la vergine guerriera degli antichi arabi e Menat, la dea del fato.
Ma Allah non rubò solo il nome e il trono ad Al-lat: anche i pantaloni. La giovane dea guerriera fu la prima a montare il cavallo in tutto l’Oriente. Le sue seguaci, le amazzoni libiche, caucasiche, licie indossavano tutte dei pantaloni aderenti di lana a disegni a zig-zag, come sono ritratte nei vasi greci mentre combattono a cavallo. Quando anche l’uomo imparò a tenere le redini, la donna non ebbe più scampo. Solo nella rinascita della consapevolezza della propria forza la donna d’Oriente troverà salvezza. Abbiamo il dovere culturale di aiutarla. E’ l’unica via per arginare e poi sconfiggere l’arretratezza di tradizioni di piccole ma spietate tribù del deserto che hanno distrutto quella che pure è stata la culla luminosa della nostra civiltà.