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A Trieste c’è una panchina in cui si curano i migranti della Rotta Balcanica

Il confine è poco distante ma il loro è stato un lungo viaggio. La maggior parte lo ha percorso a piedi

Dania CeragiolibyDania Ceragioli
A Trieste c’è una panchina in cui si curano i migranti della Rotta Balcanica

Panchina delle cure

Time: 4 mins read

“Se voi venite a Trieste io vi condurrò per la marina, lungo i moli quadrati e bianchi del mare” Scriveva così Scipio Slataper, intorno ai primi anni del nostro secolo, nelle pagine inquiete del Mio Carso. Ma Trieste non è solo mare e vento, è l’ultima stazione orientale d’Italia e insieme primo approdo occidentale dell’Est. Da qui passa la rotta Balcanica diventando un crocevia di genti che l’attraversano e che spesso si fermano in una delle sue piazze, fra queste Piazza Libertà già ribattezzata Piazza del Mondo. Si mescolano e si contaminano fra loro afghani, Iracheni, curdi, yemeniti. pakistani.

Il confine è poco distante ma il loro è stato un lungo viaggio. La maggior parte di essi, prevalentemente ragazzi poco più che ventenni, lo ha percorso a piedi. Lo si nota subito, le scarpe sono sporche, lacerate, i piedi gonfi, le caviglie segnate dal filo spinato, e dai colpi sferrati dalla polizia di frontiera nel tentativo di catturarli. La piazza è piccola ma sembra avvolgerli tutti, anche gli alberi sembrano farsi più grandi, pare proprio di vederli protesi in un tentativo di abbraccio. Ma è all’imbrunire che la piazza prende forma, si anima e dopo le 17,00 vedi arrivare anche lei.

Una donna minuta di statura, ma dal cuore grande è Lorena Fornasir che accompagnata dal marito Gian Andrea e dai volontari di Linea d’Ombra, ogni sera si immerge in questa realtà, sfidando la politica, l’indifferenza, il degrado delle istituzioni. Con gesti precisi e sicuri allestisce la panchina dove vengono sistemati medicamenti e oggetti utili alle prime cure d’emergenza. Con i suoi occhi azzurri ti attraversa l’anima, con la sua grazia e eleganza, porta al collo un filo di perle che proprio non ti aspetteresti, attraversa il piazzale con passo veloce e determinato.

Si confronta con alcuni collaboratori adibiti alla distribuzione dei pasti e degli zaini che contengono un piccolo kit di benvenuto. Un cambio di vestiti puliti, un paio di scarpe, biancheria intima. Il giorno dell’accoglienza Ismail, un mediatore culturale consegna due ticket a chi ne fa richiesta, uno per lo zaino dove verrà annotato il numero di scarpe, l’altro per il pasto serale. Nel frattempo a allietare la piazza con canti, musica, giochi è arrivato anche un gruppo di scout, Lorena si unisce a loro cercando di spiegare il senso del suo progetto.

Migrante alla panchina delle cure

“Questi ragazzi che oggi vedrete hanno seguito una seconda rotta Balcanica passando attraverso Bulgaria, Serbia e Austria, quella che inizialmente attraversava la Turchia, la Grecia, la Macedonia, l’Albania e il Kosovo, entrano così in Bosnia, Croazia, Slovenia. Il flusso ininterrotto di persone inizia a ingrandirsi più o meno fra la fine del 2016 2017 e proprio a ridosso di questi anni, per una coincidenza, io e mio marito siamo venuti a abitare qua a Trieste, dove abbiamo visto i primi profughi che arrivavano in condizioni assolutamente disastrose e abbiamo pensato di andare personalmente in Bosnia per controllare, per capire cosa stesse capitando.

Era il primo giugno del 2018 e lì abbiamo constatato un vero e proprio disastro umanitario. Siamo poi tornati complessivamente altre 28 volte e successivamente abbiamo pensato di agire sul territorio italiano, renderci utili pur rimanendo a casa nostra. Abbiamo visto arrivare intere famiglie con al seguito anche bambini senza un centesimo, senza niente addosso. Abbiamo lanciato i primi appelli, ma le associazioni governative sono arrivate in Bosnia soltanto verso la fine dell’autunno e l’apertura dei primi campi non si è resa possibile prima di dicembre. Via via e uno alla volta questi campi sono poi stati chiusi. Tutto è stato convogliato in un unico grande campo di concentramento. I ragazzi venivano letteralmente rastrellati e obbligati a andare in questa area situata a Lipa a 35 km da Bihac assolutamente nel nulla, rimasta a lungo senza acqua e elettricità.

Più che un campo di accoglienza adesso sta diventando un campo di respingimento, nel senso che c’è un progetto di rimpatrio per questi ragazzi. Nessuna deroga particolare, nonostante stiano scappando dalla guerra da luoghi come Afghanistan e Siria, l’Europa continua a ritenerli paesi sicuri. Dal 2019 abbiamo fondato ufficialmente un’associazione che si chiama Linea d’Ombra, ogni giorno noi siamo in questa Piazza del Mondo grazie a tutte le donazioni che riceviamo. siamo riusciti fino a ora a rivestire, a comperare scarpe, a nutrire. Quello che facciamo soprattutto è la pratica della cura. Potete osservare anche adesso curvi su quella panchina dei volontari che sono venuti a aiutarci, due giovani medici milanesi Chiara, Federico e Domitilla una podologa proveniente da Roma.

Migrante alla panchina delle cure

Quella è la panchina della cura, dove per cura si intende anche una capacità di relazione, di entrare in contatto con le persone, con questi corpi di dolore, entrare un po’ in contatto con loro quindi non è una stretta meditazione, ma è un’intenzione da parte nostra soprattutto di renderci testimoni di queste vite violate, violentate dai confini. Molti di loro sono dei sopravvissuti nel vero senso della parola. Un giorno mentre curavo i piedi di un ragazzo, lui mi mostra una fotografia, una bella fotografia di gruppo, tanti giovani belli e sorridenti che sono nel “game” ovvero il gioco, la partita come la chiamano loro, in cui mettono a repentaglio la loro esistenza.

La traversata della rotta Balcanica dentro ai fitti boschi, dentro le selve, è irta di pericoli, ci sono gli orsi, i cani selvatici, i serpenti, ma soprattutto i pattugliamenti. Il ragazzo mi racconta di questo gruppo che ha rischiato la vita, nel gioco ci sono due possibilità, la vittoria che si traduce nel riuscire a arrivare vivi alla meta, o la sconfitta, ovvero morte o rimpatrio. Fallire il game non è una cosa da niente, perché fallire significa anche essere preso dalla polizia, essere portato nei famosi centri di tortura. Significa essere spogliati di tutto, dei vestiti, ma anche della dignità, significa che in inverno ti tolgono pure le scarpe e ti rimandano indietro scalzo con 20 grai sotto zero.”

Terminato il suo racconto con la delicatezza di una fata va a sistemarsi sui gradini, ai piedi del monumento dedicato all’imperatrice Elisabetta d’Austria, dove un grande lenzuolo bianco è stato disposto. Ci sono in mezzo alcune fotografie, sono i ragazzi che purtroppo non sono riusciti a farcela, a vincere il gioco. I loro nomi saranno ricamati con un sottile filo rosso per non dimenticarli e per testimoniare che la vita non è mai sprecata.

Da una stima di Frontex uscita in questi giorni, gli ingressi irregolari nell’Unione attraverso la rotta Balcanica sono stati circa 55,000, è stato registrato un aumento del 191% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, con una percentuale di rimpatri che si aggira attorno al 20%. Per molti di questi giovani comunque l’arrivo in Italia rappresenta non la fine di un viaggio ma la tappa intermedia verso altri paesi come Francia, Germania, Svizzera. 

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Dania Ceragioli

Dania Ceragioli

Toscana d’origine, giornalista pubblicista, si occupa di reportage e inchieste.

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