«Questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!».
Era il 9 maggio 1993 quando Giovanni Paolo II urlò queste parole contro i mafiosi dalla Valle dei Templi di Agrigento. Una dura condanna della mafia che il Papa, oggi santo, pronunciò a braccio e fuori dai rigidi protocolli, perché profondamente scosso dall’incontro con i famigliari del giudice Antonio Saetta ucciso con il figlio nel 1988 dalla mafia agrigentina e con i genitori di un altro giovane magistrato (non aveva ancora compiuto 38 anni), Rosario Livatino anche lui barbaramente ammazzato dalla “Stidda” in fondo a una scarpata, in contrada Gasena il 21 settembre 1990.

Lo scorso 9 maggio dalla Cattedrale di Agrigento, a venticinque anni esatti dalla condanna contro “Cosa nostra” pronunciata di Papa Wojtyla, un altro “grido” si è levato: «Accogliendo il desiderio del cardinale Francesco Montenegro, e di molti altri fratelli nell’episcopato e di molti fedeli, concediamo che il venerabile Rosario Livatino, laico e martire che nel servizio della giustizia fu testimone credibile del Vangelo, d’ora in poi possa chiamarsi beato». Parole pronunciate dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi in rappresentanza di papa Francesco.
Il giudice Livatino, con le sue indagini frantumò quel che difatti si dimostrò il “punto forte” della mafia: la connivenza con imprenditori, politici e finanzieri e il conseguente sistema di tangenti e corruzione. Segmento su cui s’impegnarono anche altri grandi magistrati come Falcone e Borsellino, vittime anche loro della mafia siciliana. Le parole di Giovanni Paolo II non caddero nel vuoto ma scavarono nel cuore della gente onesta e laboriosa gettando il seme dell’indignazione, della denuncia, del riscatto e dell’impegno dei siciliani e dell’Italia.
L’esempio del nuovo beato assieme a coloro che hanno dato la vita per la giustizia e la legalità (magistrati, poliziotti, uomini dello Stato, sacerdoti, sindacalisti, uomini di partito, bambini e onesti cittadini…), richiama non solo la storia dell’Italia indelebilmente e tristemente segnata dalla violenza e dalla corruzione della mafia, ma soprattutto la storia di un Paese vivo e onesto per la presenza e la testimonianza luminosa di donne e uomini che con il loro coraggio e il loro sacrificio hanno saputo rispondere alla violenza con la resistenza non-violenta, con la legalità e la giustizia.

Testimoni, laici e credenti, che hanno infuso, soprattutto nei giovani, fiducia, speranza e una “cultura alta e altra” rispetto alla “non-cultura” di sopraffazione e morte della criminalità organizzata. Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer del magistrato dal 1995 condannato all’ergastolo, ha scritto un messaggio ai giovani invitandoli a liberarsi da ogni legame con la mafia. Lo stesso ha detto del magistrato beato: «Il giudice Livatino lavorava per tutti quei giovani che si erano persi nell’abbraccio mortale della criminalità. Lavorava quindi anche per me , per vedermi libero e vivo. Io non l’avevo capito» (Lilli Genco, Alessandro Damiano, Rosario Livatino. La lezione del giudice ragazzino, Di Girolamo editore, 2021).
Rosario Livatino non è solo un eroe civile, ma è anche un testimone della coerenza tra fede e storia. Difatti papa Francesco lo ha definito «martire della giustizia e della fede. Nel suo servizio alla collettività come giudice integerrimo, che non si è lasciato mai corrompere, si è sforzato di giudicare non per condannare ma per redimere. Il suo lavoro lo poneva sempre sotto la tutela di Dio, per questo è diventato testimone del Vangelo fino alla morte eroica. Il suo esempio sia per tutti, specialmente per i magistrati, stimolo ad essere leali difensori della legalità e della libertà».

Parole incoraggianti, quest’ultime, anche per i tanti magistrati onesti che vivono, nonostante le gravi difficoltà del momento, quel che il loro collega affermava in una conferenza su “Fede e diritto” tenuta a Canicattì il 13 aprile 1986 : «L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta». E poi Livatino chiarisce come vive la sua fede un magistrato credente: «Il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. […] Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio».
La santità straordinaria vissuta nella feconda quotidianità del primo magistrato beato della Chiesa è un forte “schiaffo” per i credenti. Se ve ne fosse ancora bisogno la beatificazione del giudice Livatino sancisce, ancora una volta, l’inconciliabilità morale tra Vangelo e mafia, tra vita cristiana e ogni forma di criminalità organizzata e non di violenza e di corruzione, di “inchini” durante le processioni, di offerte macchiate di sangue e morte. L’errore peggiore che si possa commettere è far di Rosario Livatino un’immaginetta, un santino senza anima. Quella camicia macchiata dal sangue che versò il giorno in cui venne ucciso in odio alla sua fede, è il sangue dei martiri che è seme di vita, speranza, legalità e redenzione per la Chiesa e per l’umanità tutta perché «Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili».