In questi giorni l’emergenza sanitaria Covid-19 ha messo drammaticamente in evidenza come la prossimità fisica su cui si basano molti servizi socio-sanitari si trasformi rapidamente in minaccia. Il tasso di mortalità nelle case di riposo in Italia è altissimo. Una volta penetrato in struttura, il virus fa degli scempi visto che lì vi si trovano persone molto anziane ed estremamente fragili, come hanno scritto Marco Arlotti e Costanzo Ranci qualche giorno fa. Esistono però una miriade di altri interventi di welfare che si basano sulla convivenza molto stretta tra utenti, tra persone che non appartengono allo stesso nucleo familiare, sia nell’ambito delle politiche pubbliche locali, sia come esito della progettazione di enti privati non profit: sono tantissimi infatti i progetti di associazioni, cooperative e fondazioni in cui la convivenza sotto uno stesso tetto costituisce un atout fondamentale. Tale convivenza avviene in strutture collettive, in nuclei comunitari più o meno grandi o in alloggi di civile abitazione. In questi luoghi le persone condividono spazi comuni come cucine, sale, terrazzi e hanno a propria disposizione una stanza o anche solo un posto letto. I gruppi sociali cui si rivolgono sono variegati, alcuni con vulnerabilità evidenti, altri meno: mamme sole con figli, donne vittima di violenza e di tratta, persone affette da patologie psichiatriche, persone con problemi di dipendenza (da alcol, droghe), minori allontanati dalle famiglie, minori stranieri non accompagnati, rifugiati, richiedenti asilo, persone senza dimora, individui e famiglie in emergenza abitativa, anziani non del tutto autonomi, adulti disabili. La lista potrebbe continuare. L’infrastruttura socioassistenziale in Italia è innervata da diverse “case” – “case rifugio, “case di accoglienza”, “case famiglia” e tante altre- e da comunità di vario tipo.
Far condividere spazi domestici permette di ridurre i costi dell’intervento sociale, di organizzare meglio il lavoro di operatori e di rendere i servizi sostenibili dal punto di vista economico, ma anche in tanti casi, di attuare percorsi terapeutici e/o educativi che fanno della condivisione -di esperienze, di modi di fare e di essere, di affrontare i problemi- un punto di forza.
Ciò che mi preme qui segnalare è che se in tempi normali l’iper-prossimità implicita nei servizi di welfare residenziali è un criterio insieme organizzativo e relazionale su cui si fa leva per dare risposta ai bisogni di cura, di buona crescita e di protezione, oggi questa “fa problema”. Il Covid-19 e le norme di distanziamento poste a tutela di contagio impongono di separare le persone, di creare spazio tra di loro, di regolarne il flusso e i comportamenti nell’uso degli oggetti, delle aree comuni e talvolta, anche delle camere. Si tratta di seguire protocolli di emergenza.
Poiché questo mondo è vasto, ho deciso di provare a capire come si stanno riorganizzando a livello cittadino quanto meno i servizi di bassa soglia.
A Milano, da dove scrivo, il Comune si è per esempio, trovato nella necessità di diradare le presenze di “Casa Jannacci”, il più grande dormitorio pubblico destinato alle persone adulte in difficoltà, in grave stato di bisogno, prive di alloggio e senza mezzi economici per procurarselo. Le mense pubbliche sono state chiuse e molte persone hanno bisogno di sopperire a bisogni essenziali rispettando la quarantena. Enti del terzo settore (in questo caso la cooperativa Spazio Aperto Servizi, gestore della Casa, ed Emergency) con la Protezione Civile hanno allestito gli spazi di uno dei centri sportivi, il Saini, chiuso ormai da febbraio, per ospitare 160 persone. Altre 120 sono state spostate negli spazi di una tensostruttura nell’ex Scalo ferroviario di Porta Romana. Un’ulteriore struttura è stata messa a disposizione dei rider senza casa a Villapizzone. Si tratta di un ex centro diurno che è stato riadattato a casa- famiglia e concesso gratuitamente a 20 giovani rider, una categoria esposta a molteplici rischi, a partire dal fatto che lavorano a cottimo, sono spesso immigrati senza un luogo dove vivere. Accanto a questa strategia di riduzione della densità degli utenti, si pone anche quella di chiudere questi luoghi, impedendo alle persone di uscire per evitare i contagi e così preservare sé stessi e gli operatori che non solo continuano a lavorare, ma lo devono fare in condizioni inedite, rispettando regole e protocolli ferrei.

Da interviste con gestori di servizi sociali a contenuto residenziale emerge che tutti sono oggi alle prese con difficoltà enormi nell’adattare la vita quotidiana dei propri ospiti e adottare i protocolli sanitari in essere a fronte del diffondersi del virus, sia in contesti in cui si concentrano grandi numeri di persone, sia in quelli in cui vivono in due o tre. La questione di dove inserire persone che possano vivere insieme emerge oggi con più forza ancora.
Il Comune di Milano ha lanciato un bando ad inizio aprile per “individuare strutture e alloggi di accoglienza per personale sanitario operativo e lavoratori nei servizi essenziali, cittadini sottoposti a quarantena (anche Covid-19 con sintomi lievi) che non hanno la possibilità di dimorare presso il proprio domicilio e persone in difficoltà sociale e abitativa”. Alberghi ormai deserti stanno mettendo a disposizione le proprie camere. Uno di questi è l’Hotel a 4 stelle Michelangelo, in pieno centro, vicino alla Stazione Centrale di Milano. Lì potranno essere ospitati soggetti positivi al Covid, loro contatti stretti con quarantena obbligatoria che sono stati dimessi o non hanno avuto percorsi ospedalieri, persone che non hanno alloggi idonei alla quarantena, Forze dell’Ordine, persone senza fissa dimora o coloro che alloggiano temporaneamente in strutture comunitarie. Altri servizi residenziali stanno provando ad intercettare bisogni molto specifici. La cooperativa “La Cordata” per esempio ha, assieme al Comune di Milano, alla Cooperativa Comin, a Emergency e alla Diaconia Valdese, trasformato un piano del proprio residence in via Zumbini in modo da accogliere 6 minori tra i 6 e i 14 anni, i cui genitori sono in ospedale perché positivi al coronavirus e che non hanno altri adulti di riferimento che possano prendersi cura di loro.
Insomma, le sfide per le politiche cittadine sono molte. L’ approntare lo “stare a casa” in Italia per molti significa e significherà “stare a casa con altri” il che costituisce un vero laboratorio sociale. Incrociamo le dita.