Qual è il paese più felice del mondo? Secondo il World Happiness Report la Finlandia pare sia il paese dove si viva più felicemente. Ora che lo so, credo che mi trasferirò lì dato che non è facile vivere in America. Mi meraviglio comunque del fatto che gli USA siano risultati al 18esimo posto nella stessa graduatoria e non all’ultimo se consideriamo tutti gli episodi di violenza, odio e tensione razziale continui di cui siamo testimoni. L’indagine ha valutato sei indici variabili importanti che prendono in considerazione il “benessere generale di una nazione” e cioè il reddito medio, la libertà, la fiducia nel governo e nelle istituzioni, l’aspettativa di vita della popolazione, l’assistenza e la generosità sociale. E’ proprio guardando a questi aspetti e ad altri quali l’assistenza medica agevolata, l’istruzione gratuita, il permesso di maternità obbligatoria e tutta una serie di benefici e di servizi di cui usufruiscono gratuitamente o a prezzi vantaggiosi (in America ce li possiamo solo sognare) che la Finlandia risulta essere una utopia, il paese ideale in cui vivere. Ma poi lo è veramente?
Non proprio se diamo molta importanza al benessere materiale. Secondo l’opinione di un esperto: “I finlandesi condividono un’equa distribuzione del reddito e un basso tasso di povertà, ma non godono della stessa abbondanza materiale degli americani”. L’Organization for Economic Co-operation and Development ha dato 10, il massimo dei voti, all’America per il reddito pro capite e solo 3.5 alla Finlandia”. Con questi risultati possiamo concordare con quanto è stato affermato da un altro esperto: “Nonostante il benessere di massa che abbiamo creato non siamo più felici di 60 anni fa”.
Se allora non possiamo far dipendere la felicità dal benessere o qualsivoglia fattore materiale quantificabile e concreto, viene da chiedersi: “Si può misurare la felicità?” La felicità è un sentimento del tutto soggettivo e astratto (e per molti inafferrabile). Esponenti della filosofia morale e scienziati hanno cercato con difficoltà di darle una definizione e di accertarne l’esistenza sin da lunghissimo tempo. I padri fondatori dell’America soprattutto Jefferson e Franklin, fortemente influenzati dalle dottrine filosofiche britanniche e francesi dell’epoca rivoluzionaria, pensarono che la felicità fosse una componente così importante per una nazione da includerla nella stesura della costituzione.
Eppure quanti esperimenti e sforzi sono stati fatti, da allora,per rendere la società più felice che ahimé, sono falliti?Da Charles Fourier, il visionario del 19esimo secolo che ha inventato la parola femminismo e ha proclamato partecipazione e cooperazione come la base di una società felice e produttiva, alle comunità hippie che hanno rappresentato ogni principio non-materialista, le speranze di vedere realizzato il sogno di una società più felice sono state ripetutamente infrante.
Jerry Rubin, il capo dei “Chicago Seven” che disturbò la Convenzione Democratica del 1968 e che ha incarnato la filosofia anti-materialista della controcultura, ha dichiarato alla fine degli anni ’60: “Credo nell’equa distribuzione della ricchezza e del potere nel mondo. Credo nell’assistenza ospedaliera per tutti. Credo che non ci debba essere neanche un senzatetto nei paesi più ricchi del mondo…”. Eppure qualche anno dopo è diventato un imprenditore ed è stato tra i primi, un pioniere, ad investire nelle azioni della Apple, diventando un milionario già nei primi anni settanta. L’era idealista degli hippie fu seguita dalla reazione conservatrice degli anni ’80, a dimostrazione dei corsi e ricorsi della storia che si alternano e oscillano come un pendolo da un estremo all’altro.
Se la Finlandia è un paese in cui, a quanto pare, tutti sono sicuri di poter ottenere successo e felicità, il Bhutan è un paese in cui la felicità del popolo è parte integrante della politica nazionale, tanto da aver inventato l’ammirevole concetto del Gross National Happiness (Tasso di Felicità Nazionale Lordo) in sostituzione del Prodotto Nazionale Lordo. In questo modo il materialismo assume un ruolo secondario rispetto agli altri obiettivi più “umani e civili”. Il termine “Gross National Happiness” è stato coniato da King Jigme Singye Wangchuck che ha governato in Bhutan fino al 2006.
Il termine non ha attirato l’attenzione dell’Occidente fino al 2008 quando Nicolas Sarkozy, all’epoca presidente della Francia, ha commissionato degli economisti per scrivere un resoconto investigativo sull’importanza e sull’influenza che la felicità ha sugli indici di sviluppo di una nazione. In seguito, nel 2011, l’Assemblea Nazionale delle Nazioni Unite ha emanato una delibera in cui invitava gli stati membri a prendere in considerazione dei provvedimenti che potessero includere il perseguimento della felicità per garantire un miglior sviluppo delle nazioni. La prima relazione mondiale sulla felicità è stata rilasciata nel 2012.
Anche se possiamo essere d’accordo che il materialismo non ci renda felici,e che infatti ce lo impedisce, non vuol dire che il governo non possa formulare dei provvedimenti legislativi per aumentare le possibilità del raggiungimento della felicità. Potremmo chiederci se il governo non abbia alcun obbligo di assicurarci la felicità. La risposta è semplice e positiva perchéi padri fondatori ci hanno fatto una tacita promessa quando l’hanno inserita come parte integrante della Costituzione e quindi si sono impegnati nel tentare di tutto per arrivare al suo raggiungimento.
Ma come? E’ difficile dare una risposta a questa domanda che inesorabilmente ne fa nascere altre: che cosa ci rende felici? Come possiamo far felici tutti (e poi tutti chi? La maggioranza della popolazione)? Come si può pensare di far felici tutti se il significato della felicità è soggettivo?
Persino Mr. Ura, il bhutanese che ha applicato e adottato il concetto di Gross National Happiness si è dichiarato scettico riguardo alla situazione. Si è reso conto che “forse stabilire un indicatore del tasso di felicità nazionale sia un concetto nato più che altro tra i circoli accademici di una ristretta elite di persone e dei paesi più ricchi”.
Nella relazione su “Wellbeing and the Role of Government” (Il ruolo del governo e il benessere della nazione) l’Institute of Economic Affairs ha riassunto le difficoltà incontrate per l’attuazione di tale progetto e ha concluso che l’agognata ricerca della felicità lanciata in Bhutan si è rivelata essere più un pensiero sperimentale che una meta realistica e raggiungibile, tranne che per i paesi più poveri.
Che sia per definizione – la felicità è quello stato breve, transitorio e leggero del benessere delle persone – o per il coinvolgimento del governo nel promuoverla a livello sociale,rimane il fatto che il resoconto dell’IEA conferma quello che si è sempre sospettato: “i nuovi dati statistici suggeriscono che la felicità dipenda dal reddito pro capite”. Ebbene sì, nel mondo reale il denaro può assicurare almeno un certo livello di felicità o per lo meno scongiurare l’infelicità. E per i governi come quello del Bhutan che cercano di trasformare la ricerca della felicità in azione politica l’IEA ha dichiarato che, “non c’è nessun modo per stabilire che l’aumento del benessere di una nazione debba essere raggiunto a scapito della giustizia, dei valori morali, e della libertà e che applicare un tale principio in maniera fondamentale a tutto il riordinamento della società è molto pericoloso”. Viste le conclusioni, mi sa che per il momento rimarrò a vivere negli Stati Uniti.
Traduzione di Maria Fratianni-Santoro