Scrivo dalla prova generale della cerimonia di chiusura paralimpica di Rio 2016, che si terrà domenica 18 settembre. Il Maracanã trema ancora una volta per le prove suono, Ivete Sangalo è sul palco e domenica insieme ad altri artisti brasiliani e internazionali concluderà con un grande concerto questa stagione olimpica così inaspettatamente riuscita.
Nessuno credeva in queste Olimpiadi. Quando sono arrivata, ad ottobre scorso, i giornali di tutto il mondo avevano appena iniziato una campagna mediatica che dipingeva queste olimpiadi come già segnate in partenza da violazioni dei diritti umani, un’epidemia di zika, guerre tra trafficanti, mancanza di infrastrutture: certamente problemi quotidiani di questa città; di lì a poco, la decisione di allontanare Dilma Rousseff dal governo e l’ingresso di Michel Temer alla carica di presidente ad interim avrebbero diviso un paese abituato a sambare insieme. Ma la scommessa olimpica era già aperta da sette anni, e alla fine, in modo molto brasiliano, tutto è andato come doveva andare .
Anche io sono qui per una scommessa, in fondo. Un anno fa, in un giorno di pioggia a Roma, ho bussato alla porta dell’atelier di Silvia Aymonino, costume supervisor delle cerimonie di apertura e chiusura olimpica e paralimpica e veterana di questo tipo di evento dopo Torino, Sochi, Londra. Di lei conoscevo solo i lavori teatrali e di opera, e certamente non sapevo che due settimane dopo questo incontro sarei arrivata a Rio de Janeiro come sua assistente personale.


Brasiliana di sangue ma non di nascita, vivere in Brasile è sempre stata una mia fantasia, una possibilità tenuta nel fondo della mia mente. Ho sempre parlato portoghese con la stessa cadenza della cittadina dell’interno di Sao Paulo in cui ho trascorso le vacanze estive fino ai diciotto anni, con le r marcate, rurali, molto diversa dalle s a denti stretti esplicitamente cariocas. Rio de Janeiro era per me solamente una memoria sbiadita di una vacanza da bambina con i miei, per questo sono partita senza alcuna aspettativa.
Prima di Rio c’era stata New York, dove ho studiato al Fashion Institute of Technology dal 2010 al 2014 e poi lavorato tra studi di designer, teatri e set cinematografici. Due metropoli, New York e Rio, affascinanti quanto difficili. Di certo in Brasile ho vissuto una quotidianità privilegiata, comoda, molto diversa da quella della maggior parte di chi vive qui; allo stesso tempo a contatto con realtà contrastanti, tutte presenti dentro lo stesso stadio: dai dirigenti e producer fino ai ragazzi che hanno costruito il palco, ho avuto l’onore di conoscere almeno un minuto della storia di ognuno, fosse nel dietro le quinte dello show, su un balcone di Leblon o ad un barbecue nella favela di Rocinha.
Forse la lezione più importante che ho imparato in questi undici mesi me l’ha insegnata Pedro, nato e cresciuto nella favela più grande del Sudamerica, che riaccompagnandomi all’entrata della sua comunidade dal balcone dove aveva organizzato una festa di addio per i suoi capi in partenza per Londra mi ha detto: “È triste salutarli, ma loro sanno che avranno sempre una casa qui”. Pedro non parla inglese, né i suoi capi, ora suoi amici, parlano portoghese, e al momento degli addii erano tutti in lacrime. O forse me l’hanno insegnata i ragazzi di Spetaculu, una ONG che insegna le arti dello spettacolo a ragazzi in età da liceo che vengono da realtà sfortunate e che dopo sei mesi con noi hanno già offerte di lavoro su set e in teatro. O forse… solo vedere i mezzi pubblici che funzionano, i casi di zika ridotti a un ricordo, o vedere il Brasile vincere una medaglia d’oro per il calcio dentro lo stadio del Maracanã, spiando fuori dai camerini.

Tutto questo è il legado olímpico, l’eredità olimpica, quello che rimane di questi anni e di questo evento. I problemi del Brasile non sono sicuramente risolti – un’olimpiade non avrebbe risolto i problemi di alcun paese in sole quattro settimane. Ma almeno si percepisce che le persone sono rincuorate dal fatto di aver saputo dimostrare di riuscire a fazer bonito (far bene).