Gli è arrivata una mail: e Alex Schwazer, marciatore, è stato squalificato per 8 anni. Arcinota, ormai, la vicenda oggetto della condanna. Lo ha deciso nella notte del 10 Agosto il TAS (Tribunale Sportivo Arbitrale), liquidando, così, le residue speranze di partecipare ai Giochi Olimpici di Rio, già in corso. Schwazer ha 31 anni: sicché, la pena travalica ampiamente lo spazio di un’Olimpiade, pur agonisticamente importantissimo; e, di fatto, dilaga in effetto capitale: letteralmente. L’atleta, a titolo sanzionatorio, non ha avrà più vita sportiva “ufficiale”.
Ma l’uomo, no. Quest’uomo che, a ben vedere, è ancora un ragazzo, è stato colpito: ma è vivo. Cosa vorrà fare nel tempo avvenire può saperlo solo lui: e lo capirà quando, dove oggi ci sono ferite, si stenderanno cicatrici. Qui si può, però, brevemente riassumere cosa ha già fatto.
Cade: EPO, 2012. Tre anni dopo, si rialza. E’ solo, ma volge lo sguardo, e una mano si tende: Alessandro Donati; un’altra si stringe alla sua: Mario De Benedictis. E, col pudore che si deve ad ogni uomo, universo in sè compiuto eppure a tutto aperto, solo notiamo il mistero di quei cognomi: così puntualmente significanti, in un incontro in cui lo slancio gratuito di sè, e della propria matura e pure sofferta esperienza, si congiungono all’assenso fiducioso, alla buona volontà di rinnovare, riscuotendo dal male. Io non ho mai allenato un marciatore, dice Donati a De Benedictis; che, invece, nella sua Pescara, allo Stadio Adriatico, educava già alla marcia quando Alex non andava nemmeno a scuola: vorrei ricomporre questo puzzle, sostenere un talento straordinario mentre ritrova la sua via: mi dai una mano? E partono.
Era la fine di marzo del 2015. Ai primi di Aprile, qualcuno già si dice sicuro che finirà male. Profeta? Iettatore? Vate della recidiva? Non si sa. E’ certo, però, che questo ritorno non piace a tutti. Perchè mai?

Per una quantità di ragioni, se ragioni possono essere dette, l’iniziale delusione per l’errore, incancrenitasi in rancore inesausto; il desiderio di emendarsi macchiando, covato in quanti fra istituzioni, persone, interessi, il Prof. Donati è andato chiamando alle loro responsabilità; probabilmente, infine, una dimostrazione di forza: non meno ebbra che miope.
Sì, perchè fra le cose che Alex Schwazer ha già fatto, si annovera proprio l’azione che, probabilmente, ha costituto la sua maggior colpa, agli occhi di quelle ragioni così contorte: ha suscitato consenso. Si voleva l’impuro eterno, la lapidazione sulla pubblica via: hanno avuto la verità, molto diffusamente riconosciuta, di un volto che, senza dirlo, testimoniava: oggi a me, domani a te. E questo è potuto accadere, non perchè una moltitudine dannata di anonimi maneggioni ha trovato il suo oscuro campione; ma perchè donne e uomini retti, vicini e lontani, la gran parte dei quali due mesi fa nemmeno conoscevano, non dico il nome, ma certo non la storia e la figura di Donati, di De Benedictis, forse qualcuno nemmeno quelle di Schwazer, hanno visto, hanno capito, e hanno detto: non è giusto, il troppo, stroppia.
Non è giusto che le provette con i campioni biologici di Schwazer abbiano violato l’anonimato; non è giusto che gli accertamenti siano stati curati solo da personale medico fiduciario della IAAF (Federazione Internazionale Atletica Leggera) e non della WADA (Word Anti Doping Agency) che, pur discussa, come l’altra, è almeno competente per materia e non, come l’altra, controparte; non è giusto che un esame positivo, e tenuto tale per quattro mesi e mezzo, sia stato immotivatamente e clandestinamente riesaminato, tardivamente comunicato; non è giusto che si continui ad affermare la presenza di steroidi, quando, dal 1° Gennaio al 22 Giugno 2016, Schwazer, il cui trofismo muscolare è asciutto come quello di una statua greca, è sempre stato “negativo” ai controlli compiuti (36, considerando pure proprio l’ultimo del 22 Giugno), e ai quali si era pure formalmente dichiarato disponibile H24, rinunciando alla “finestra oraria”; non è giusto, ignorare che Schwazer avrebbe potuto tenersi gli antiifiammatori autorizzati, capaci di pacifici effetti anabolizzanti, invece di cercare improbabili benefici da microdose unica e sola; non è giusto che ogni fase del procedimento, conseguente alla sospensione del 9 luglio, sia stata neghittosamente remorata, fino alla decisione di mercoledì, ad Olimpiade già ampiamente inaugurata: giacchè è sembrato per lo meno singolare, che il ritenuto Torto non si sia sottratto, e abbia semmai dovuto lui inseguire la Ragione.
Ed è troppo che la vita, e le opere, la lineare costanza del Maestro dello Sport Alessandro Donati, non si dice: mai sospettato di avere allenato atleti “col trucco”, come invece molti fra suoi Colleghi, illustri e meno illustri, è certo abbiano fatto; e, anzi, già in passato, nel 1997, vittima di accuse di doping rivolte ad atlete che allenava, come la saltatrice ad ostacoli Anna Maria Di Terlizzi, e poi risultate proprio frutto di manipolazioni su provette; ma, senza meno, lui essendo, semplicemente, l’Antidoping, ecco, è parso davvero troppo, e troppo scopertamente protervo, ripristinare proprio con lui, il vecchio arnese degli Apparati Inquisitori, cui poco fa accennavo: emendarsi macchiando. Sebbene Gianni Minà, già nella Prefazione al primo libro di Donati del 1989, Campioni senza valore, a lungo introvabile e mai più rieditato, nonostante il successo (ma qui in PDF ), avesse scritto: “Ad un certo momento si tenta perfino di far passare lui per bandito”.
E, a proposito dell’Apparato, cade un’osservazione conclusiva, che sommessamente, credo sia decisiva per stabilire se, come e quanto, quello che Schwazer e Donati e De Benedictis hanno già fatto, potrà risultare seme di una nuova, buona e vittoriosa battaglia. Non esiste lo Sport, e il mondo fuori dello Sport. Come sappiamo, c’è la vita, nei suoi molteplici momenti: individuali e comunitari o, da Pòlis, politici.
E non c’è la Giustizia sportiva e la Giustizia non sportiva. C’è la Giustizia, o la sua negazione: il sopruso. Ci sono uffici diversi semmai: ma questa è la superficie, toponomastica burocratica, non è la sostanza della questione.
La sostanza della questione è sentire il Prof. Donati, che, appena giunto a Rio, riconosce: “...io confesso, e faccio ammenda, di non averci mai pensato prima…proprio uno deve sbatterci la testa per rendersi conto..” e poi, dopo la decisione del TAS, lui, Alex Schwazer: “sono distrutto” e, dunque, cogliere l’estenuazione di tutto un cimento ingiusto, violento, sopraffattore, che attraversa queste parole.
Gli abusi investigativi, probatori, processuali, sono universali: si nutrono di una “certa cultura”, in Italia diffusa a profusione dal 1992 in poi, come si sa; basta sostituire la parola Antidoping, con ogni altro Anti-, e capire dove possano condurre, su una scala tanto più vasta quale può essere quella della giurisdizione penale, simili e interessate turbolenze; come, col pretesto della questione di volta in volta invocata, di un Emergenza di volta in volta sbandierata, possa finirsi col munire e giustificare Istituzioni e culture micidiali.
E a comprovare, se ve ne fosse bisogno, quanto siano decisivi gli uomini e la loro “cultura”, basti qui, con Manzoni, rilevare che: “una cattiva istituzione, non s’applica da sè” (Storia della Colonna Infame).
Il primo e fondamentale passo, forse, bisognerebbe allora farlo proprio in direzione di un “riesame” culturale: silenzioso, personale e diretto; in cui ciascuno, a partire dallo spettacolo orrendo messo in scena per Alex, si soffermi, e valuti, onestamente, serenamente, se di quella cultura, anche inavvertitamente, magari per passione, si fosse fatto interprete. E se, casomai fosse stato, non creda di sentirsi pronto a ripensarci. E gli altri? Gli altri sono il problema.