Un film e un regista che in un anno hanno conquistato i festival europei e sembrano non avere più bisogno di presentazioni. Candidato a sei premi del David Di Donatello 2017, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes l’anno prima e vincitore del Premio Monicelli, Fiore di Claudio Giovannesi è ormai un acclamato gioiello del cinema italiano contemporaneo.
Classe ‘78, Claudio Giovannesi, regista, sceneggiatore, musicista e docente di cinema alla Rome University of Fine Arts, arriva al cinema dopo il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, realizzando un primo lungometraggio dal titolo La casa sulle nuvole nel 2009, seguito dal documentario Fratelli d’Italia nello stesso anno, fregiato della Menzione speciale della giuria al Festival Internazionale del Film di Roma e candidato ai Nastri d’Argento come Miglior Documentario. Da quel fortunato incontro con “i ragazzi di vita” di Ostia è nato, qualche anno dopo, Alì ha gli occhi azzurri, anch’esso premiato al Festival Internazionale del cinema di Roma, un film che racconta la storia di Nader, un giovane adolescente di origini egiziane di Ostia, che, come tutti gli adolescenti, vive la scoperta dell’amore e delle dinamiche adulte, scontrandosi con la morale musulmana dei genitori.
Poi il documentario Wolf – candidato ai Nastri d’Argento – su Wolf Murmelstein, figlio del rabbino “traditore” Benjamin Murmelstein, che collaborò con i nazisti nel ghetto di Vienna. Nel 2016, dopo tanto altro, incluse due puntate della serie Gomorra, infine, è arrivato Fiore, il racconto di un amore adolescenziale sbocciato all’interno di un carcere minorile tra Daphne e Josh, due personaggi che si chiamano come gli attori che li interpretano e che ricalcano le storie vere che il regista e gli sceneggiatori hanno incontrato nel corso delle lunghe ricerche per il film.
Un film scritto a sei mani – insieme a Filippo Gravino, con cui Giovannesi aveva già lavorato, e alla scrittrice Antonella Lattanzi – che ha beneficiato della potente fotografia di Daniele Ciprì, sceneggiatore, direttore della fotografia e compositore italiano passato alla storia per i suoi film in coppia con Maresco, con una colonna sonora curata dallo stesso Giovannesi che include anche due classici (diversi) della musica italiana: Maledetta Primavera di Loretta Goggi reinterpretata da Greta Manuzi del programma televisivo Amici e Sally di Vasco Rossi.
Fiore, come Alì ha gli occhi azzurri, è stato realizzato con attori giovani non professionisti, cercati negli ambienti del carcere minorile, come Josciua Algeri – tragicamente morto in un incidente stradale pochi mesi fa – scovato da Giovannesi grazie a una canzone rap che da carcerato Josh ha scritto al Beccaria di Milano e ha portato al Piccolo con uno spettacolo teatrale. E come Daphne Scoccia, incontrata per caso in una trattoria di Monteverde, a Roma, mentre serviva ai tavoli, con un passato travagliato e due occhi grandi che dicono tutto. Sul fronte adulto, invece le cose cambiano: gli attori sono tutti professionisti e di altissimo livello. Valerio Mastandrea, premiato come miglior attore non protagonista ai David Di Donatello, l’attrice romena pluripremiata Laura Vasiliu e Aniello Arena, l’ex carcerato che ha magistralmente recitato come attore protagonista anche in Reality di Matteo Garrone. Due mondi divisi e distanti quello dei giovani e quello degli adulti, che parlano lingue diverse e che si scontrano senza volerlo. Come in Romeo e Giulietta, infatti, la morale degli adulti ostacola i desideri dei giovani che, pur di vivere il momento, mettono a rischio il loro futuro, senza rendersene conto. E come I ragazzi di vita di Pasolini compiono crimini che non vivono come tali, ma come attimi di gloria o di disperazione che vanno e vengono, senza (quasi) lasciare traccia.
Abbiamo incontrato Claudio Giovannesi al Lincoln Center di New York, dove il regista è venuto a presentare il suo film durante il festival Open Roads: New Italian Cinema, e gli abbiamo chiesto qualcosa su questo piccolo grande capolavoro.
I tuoi film parlano sempre di adolescenti, perché questa scelta?
“Anni fa ho fatto un documentario che si chiama Fratelli d’Italia su tre ragazzi di origine non italiana, ma romani a tutti gli effetti, che vivevano a Ostia e c’era questa scuola che aveva il 20 per cento di studenti non italiani, nel 2007, che era un dato abbastanza rilevante per l’epoca. Da allora ho cominciato a lavorare con i ragazzi, ho realizzato tre episodi di questo film e l’ultimo episodio è diventato un film [Alì ha gli occhi azzurri, n.d.r.]. Lì mi sono avvicinato ai personaggi adolescenti perché sono più amorali rispetto agli adulti, perché hanno una morale diversa e questa cosa è assolutamente cinematografica: puoi raccontare un crimine commesso da un quindicenne ma si resta sempre nella dimensione del gioco, non è mai una rappresentazione adulta. Questa cosa è affascinante, perché c’è un contrasto forte. E poi perché mi interessava raccontare questi ragazzi lontani dal centro di Roma, che hanno ricevuto un’educazione sulla strada, erano personaggi che mi affascinavano e mi ricordavano un film che secondo me è uno dei più belli della storia del cinema, che è I quattrocento colpi [di François Truffaut, n.d.r]. Poi c’è Larry Clark, un fotografo e regista che mi piace molto che mi ha influenzato a sua volta. Ma soprattutto l’incontro con quelle realtà mi ha stimolato. Dopo aver fatto Alì ha gli occhi azzurri, ho saputo che il carcere minorile era misto, quindi c’erano sia maschi che femmine con il divieto assoluto di incontro e comunicazione, allora ho iniziato a lavorare a Fiore”.
Hai fatto un grande lavoro di ricerca prima di girare?
“Siamo stati sei mesi in un carcere minorile per conoscere quella realtà e le persone, perché il carcere non te lo puoi inventare. L’accesso è stato faticoso: abbiamo raccontato la verità, dicendo che dovevamo scrivere una sceneggiatura e avevamo bisogno di conoscere il posto, altrimenti avremmo raccontato delle cose non vere e disoneste. Quindi abbiamo convinto la direttrice del carcere e abbiamo fatto un laboratorio con i ragazzi tre volte a settimana. Erano tre palazzine che ospitavano i maschi grandi, i maschi piccoli e le femmine: stavamo una volta a settimana con ognuno di questi gruppi. Questo laboratorio era chiaramente finalizzato alla scrittura di un film, anche i ragazzi lo sapevano. Poi siamo tornati in carcere per lavorare sulla sceneggiatura con i poliziotti, con gli educatori, con tutto il sistema carcerario per raccontare delle cose reali nel film. Perciò quello che vedi nel film è vero, non è inventato, compresi balli, lettere, è tutto vero”.
Infatti il tuo film è stato accostato al cinema del vero…
“Sì, ma è tutto finto, è una messa in scena. Il realismo è un metodo, è una tecnica, come la fantascienza. La tecnica per far sembrare vero qualche cosa passa per la documentazione, come metodo”.
Avete fatto delle scelte tecniche ad hoc per raccontare questa storia, la scelta di certe lenti e inquadrature per esempio?
“Sì, perché è una storia d’amore e volevamo stare sui visi dei personaggi. Per raccontare i sentimenti hai bisogno del volto, è un linguaggio classico del cinema, per raccontare le emozioni dei personaggi”.
Parlando degli attori e della scelta di lavorare con attori non professionisti, perché e qual è la differenza rispetto agli attori professionisti?
“I non professionisti trasmettono la realtà del personaggio. Come obiettivo hai sempre quella di avere la maggior vicinanza possibile tra attore e personaggio. Attori sedicenni in Italia non esistono per fortuna – qui in America ce li hanno – però in quel caso volevo che i ragazzi in scena sapessero dei loro personaggi più di quanto ne sapessi io, quindi ho fatto un casting con ragazzi che avevano esperienze di carcere alle spalle. Se metto un ragazzo di San Giovanni o di Viale Parioli dentro un carcere minorile è finto, invece se prendo dei ragazzi che conoscono il carcere o personalmente o tramite familiari, lì c’è un effetto di realismo. La prima scelta perciò è stata prendere attori non professionisti per i ruoli giovani. Gli adulti del film invece sono tutti professionisti e i loro personaggi sono tutti scritti. Per il personaggio del papà della protagonista, interpretato da Valerio Mastandrea, abbiamo incontrato il padre di Daphne, che si era fatto 8 anni di carcere, gli abbiamo chiesto tante cose e abbiamo scritto il personaggio che Valerio ha messo in scena con quel suo solito effetto di verità”.
Più volte hai detto che il tuo cinema non è “sociale”, come lo definiresti allora?
“Non so come definirei i miei film, ma non sociale sicuramente. Non mi piace l’etichetta di cinema “sociale” perché implica un giudizio, cioè ‘faccio un film sul carcere minorile per farti vedere come si sta là dentro’. Questo genere di cinema non mi piace né farlo né vederlo. Anche perché io non so niente del carcere minorile, come faccio a spiegarlo agli altri? Se avessi fatto 20 anni di carcere forse potrei, ma forse no. Quello che mi interessa è raccontare dei personaggi, collocati in un ambiente, in cui vivono dei sentimenti. Quando qualcuno parla di Fiore come un di un film sociale, secondo me non ha colto il film. Il cinema sociale è stato fatto da autori enormi, ma non è quello che faccio io, Il mio film è un film d’amore. Ken Loach può fare un film sociale”.
Perché hai scelto la finzione e non il documentario per raccontare le tue storie?
“È molto semplice: nel documentario non puoi mostrare certe cose, come il crimine, la vicinanza alla morte e la dimensione erotica è difficilissima da raccontare. Non puoi raccontare la storia di due ragazzi che fanno l’amore per la prima volta in un documentario, è quasi impossibile. L’hanno fatto, per esempio Roberto Minervini ci è andato vicino, ma è un’impresa eroica”.
Quali sono i tuoi riferimenti nel cinema?
“Pasolini è uno degli autori che preferisco in assoluto – e non solo io per fortuna – ma solo i suoi film in bianco e nero. Alì ha gli azzurri, oltre ad avere nel titolo una citazione di Pasolini, nasce dal desiderio di raccontare i ragazzi di vita oggi”. Altri autori che mi piacciono moltissimo sono i fratelli Dardenne, Andrea Arnold, Robert Bresson. Mouchette di Bresson e I quattrocento colpi di Truffaut sono film che mi hanno segnato per sempre. In Italia mi rifaccio molto a Matteo Garrone che amo tantissimo, Gianfranco Rosi, con il quale c’è una bella amicizia, Alice Rohrwacher, che è una mia amica e bravissima regista. Ho gli amici che fanno il mio stesso mestiere che fanno film belli, non mi ispiro a loro, ma mi piacciono e mi fa piacere”.
Sembra che in Italia ci sia un momento abbastanza positivo per il cinema e per il documentario, confermi?
“In Italia si parla sempre di morte del cinema e poi di rinascita. Adesso c’è una generazione di registi che si è messa a lavorare sul documentario e poi è passata al cinema di finzione – che poi questa espressione non vuol dire niente, sembra un’offesa”.
Progetti futuri?
“Non ne posso parlare ancora, ma posso dirti farò un altro film sui ragazzi, su una città italiana che amo molto. Dovrò documentarmi tanto e lavorare tantissimo, ma la sceneggiatura è scritta da due intellettuali che ne sanno molto più di me, quindi sono in buone mani”.
Guarda il trailer di “Fiore”: