“Torino è una città che invita al rigore, alla linearità. Allo stile. Invita alla logica, e attraverso la logica apre la via alla follia” diceva Italo Calvino.
È partita il 18 maggio e si è conclusa lunedì 22 maggio con più di 165.000 visitatori (circa 38.000 in più rispetto allo scorso anno), la 30ª edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, una edizione un po’ speciale perché quest’anno si tiene la prima edizione dopo la “separazione” non esattamente “consensuale” dall’AIE, l’Associazione Italiana Editori che da anni organizza e finanzia l’evento romano Più libri più liberi e che avrebbe desiderato avere maggiore peso anche nell’organizzazione del Salone. Dalla separazione è nato a Milano un nuovo salone, Tempo di Libri organizzato da La Fabbrica del Libro, joint venture costituita da Fiera Milano e da Ediser, società di servizi dell’ AIE. Favorevoli a questa scissione alcune grandi case editrici, ma, visto che il Consiglio dell’Aie viene eletto sulla base del peso economico che hanno le case editrici all’interno dell’Associazione, gli editori più piccoli si sono mostrati contrari al “trasferimento” del salone a Milano, preferendo un salone organizzato da un terzo super partes.
Insomma, un’edizione un po’ speciale e per me è la prima! Perché ho scelto di venire proprio quest’anno? Intanto per il tema: Oltre il confine.
Recita il comunicato stampa dell’evento: “Oltre il confine è il titolo della 30ª edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino. Oltre a ricordare un romanzo molto amato, e a introdurre l’approfondimento sul paese ospite, Oltre il confine dà sin troppo l’idea del mondo in cui viviamo per non tenerne conto. Un mondo in cui, fino a qualche decennio fa, molti confini sembravano sul punto di svanire e oggi invece si moltiplicano. Un mondo in cui fino a qualche tempo fa i muri sembravano voler cadere giù, e oggi si torna a volerli costruire. Sull’idea di confine, di frontiera, sull’idea di muro contrapposta a quella di ponte, si ragionerà molto durante questo Salone. Il Salone Internazionale del Libro di Torino non è, insomma, una semplice vetrina editoriale. È il luogo dove la produzione culturale degli editori trova da una parte un grande riscontro e una grande esposizione e un grande riconoscimento, e dall’altra (poiché stiamo parlando di contenuti) continua a spostare qualcosa, continua a incidere sulla realtà.”
Scrivendo questo articolo, sento di partecipare al superamento di un confine, rivolgendomi ai connazionali che vivono a New York, oltre il confine.
Un altro motivo per partecipare quest’anno è la sezione Another side of America, dedicata ad autori statunitensi, così descritta nei comunicati ufficiali: “Le voci che condurranno il pubblico del Salone lungo questo inedito coast to coast saranno quelle del Premio Pulitzer Richard Ford, nell’occasione in dialogo con Sandro Veronesi per presentare l’uscita in Italia del suo nuovo libro, di Jonathan Lethem che arriva grazie alla collaborazione con La Milanesiana, di Alan Friedman attraverso il suo libro Questa non è l’America, di Brian Turner a confronto con Giuseppe Culicchia, di Bruce Sterling con le sue visioni cyberpunk, dell’autrice di Future Sex, Emily Witt, della poetessa Claudia Rankine, di Chris Bachelder, mentre Daria Bignardi ci guiderà al di là della frontiera col Canada per incontrare Miriam Toews. E poi ci sono gli omaggi ad alcuni simboli della letteratura statunitense, come Kent Haruf, Stephen King, Allen Ginsberg e il genere hard boiled”.
Io sono un’appassionata di letteratura americana!
Ma ci sono anche: Hanif Kureishi, Daniel Pennac, Amitav Ghosh, Luis Sepúlveda, Annie Ernaux, Yasmina Reza, Alicia Giménez Bartlett, Cees Nooteboom (premiato da Ernesto Ferrero, giudice monocratico del Premio Letterarrio Mondello Internazionale che viene consegnato a Torino), Mircea Cartarescu, Mathias Enard e poi per il Messico Alejandro Solalinde, prete di strada su cui i narcos hanno messo una taglia di un milione di dollari.
Per i lettori appassionati come me penso ci si possa ritenere soddisfatti.
Il logo del Salone che quest’anno è stato disegnato da Gipi (Gianni Pacinotti): è un libro che scavalca un muro, non un’immagine qualunque, nell’anno di Trump e della Brexit.
Chi conosce la Fiera di Francoforte o quella di Londra non può aspettarsi la stessa cosa, perché qui ad incontrarsi non sono solo gli addetti ai lavori, gli editori e gli autori, ma anche i lettori che hanno la possibilità di assistere a decine di eventi confrontandosi con i loro autori preferiti.
Interessante la sezione Solo noi stesse che punta i riflettori sul ruolo delle donne nei processi del progresso sociale. Qui Grazia Gotti, Valeria Parrella e Lidia Ravera dedicano un approfondimento alle 21 elette che parteciparono nel 1946 all’Assemblea Costituente.
Una discussione “delicata” quella di Luciana Capretti che ha riportato le testimonianze raccolte durante le ricerche per il suo libro La jihad delle donne: un ritratto affascinante del femminismo nel mondo islamico, che fa riflettere sulla figura delle “Imame” (perché esistono!), le sacerdotesse musulmane che negli Stati Uniti e in alcuni Paesi Europei si battono per diffondere una cultura islamica diversa, per dare una interpretazione corretta del Corano troppe volte strumentalizzato a favore di interpretazioni di comodo e ad uso e consumo degli uomini. Di grande valore anche l’intervento della giornalista Farian Sabahi, di origini iraniane, che ha accompagnato Luciana Capretti in questo incontro insieme a Monica Guerritore.
Parlando invece dello Spazio Incontri, non si può non citare quello che si è tenuto venerdì con Gianni Minà da aprile di nuovo in libreria con Così va il mondo. Una conversazione che tocca il tema del fare il giornalismo oggi, del giornalismo in passato, dei rapporti con il potere e delle difficoltà a conservare una certa libertà di opinione. Minà, in una sala gremita di gente accorsa ad ascoltarlo, si è fatto accompagnare da Giuseppe De Marzo e da Felice Casson. Mi ha colpita molto rivedere Casson che si era distinto negli anni ’90 per le inchieste che portò avanti, in particolare quella sulla strage di Peteano e quella su Gladio, e Minà, che ha sfidato i “poteri forti” per fare giustizia, rappresenta l’emblema della giustizia stessa, dimostrando che una giustizia può essere possibile. Ho ritrovato un Gianni Minà reso “vulnerabile” dagli anni, oramai quasi ottanta: frastornato dal brusio fortissimo della folla del salone, si interrompeva, di tanto in tanto, cercando l’aiuto rassicurante della giovane figlia in prima fila quando non trovava gli appunti. Un Minà che ha gridato ancora una volta a gran voce che bisogna andare oltre le apparenze per capire cosa sta succedendo oggi nel mondo, soprattutto per capire cosa sta accadendo nei Paesi a lui molto cari, quelli dell’America Latina.

Sugli Stati Uniti, invece, ha detto: “Io ho amato e amo ancora tantissimo gli Stati uniti, la cultura, lo sport, ma penso che purtroppo abbiano fallito nel loro obiettivo, non sono riusciti a coniugare libertà e giustizia sociale. Hanno adottato una politica che spinge verso un darwinismo sociale”. Parlando dei giornalisti italiani che scrivono dagli Stati Uniti, poi, ha detto: “Oggi non ci sono più giornalisti che hanno voglia di rischiare, tutti preferiscono cedere alle lusinghe della comfort zone mediatica e distolgono lo sguardo dall’evidente situazione di intolleranza, razzismo e violenza degli ultimi anni. Un Enzo Biagi non lo avrebbe mai fatto, forse neppure un conservatore come Montanelli”. E poi ha aggiunto: “Trump? Verrà messo da parte, non è, paradossalmente, il male peggiore. Obama? Non è stato un rivoluzionario in realtà, ha portato solo un po’ più di gentilezza nella politica americana.”
Subito dopo Minà, ho assistito ad un bellissimo intervento a due voci di Luis Sepúlveda ed Elsa Osorio sulle dittature dei loro Paesi, il Cile e l’Argentina, e se Minà ce lo ha raccontato dal punto di vista del giornalista, loro lo hanno fatto da testimoni.
Troppo ci sarebbe ancora da dire, ma concludo segnalando, tra le tante incontrate, due case editrici, piccole e “alternative”: Edizioni Gruppo Abele di Torino che fa capo alla Onlus che ha lo stesso nome Gruppo Abele, fondata da Don Luigi Ciotti e creata per dare voce a chi voce non ha, nata negli anni ’80. Il catalogo oggi conta circa 500 titoli “su una pluralità di temi: diritti umani e cultura della pace, sicurezza e mediazione dei conflitti, droga e dipendenze, educazione alla legalità e criminalità organizzata. Particolare attenzione è stata data ai temi pedagogici ed educativi attraverso collane rivolte a insegnanti, educatori, genitori, adolescenti.” recita la descrizione on line. Numerosi gli autori che pubblicano e hanno pubblicato con il Gruppo Abele, tra i quali ricordiamo Dario Fo e Gianni Minà ma anche Paulo Freire o Susan George.
Fondata sempre negli anni ’80, a Firenze, La Giuntina, invece, è una piccola casa editrice specializzata in cultura ebraica, nata grazie a Daniel Vogelmann. Ha un catalogo di circa 300 titoli che trattano da temi storici, religiosi, letteratura e perfino cucina ebraica. Daniel è un figlio della Shoà, così si definisce lui stesso, suo padre Schulim aveva cominciato a lavorare come tipografo nell’antica tipografia La Giuntina nel 1928. In seguito alle persecuzioni razziali e alla deportazione nel campo di Auschwitz perse la sua prima moglie e la figlia ancora molto piccola. Dopo la guerra, cui sopravvisse miracolosamente, tornò a Firenze e rilevò la tipografia che da allora è stata gestita da Guidobaldo, il fratello di Daniel (figlio della seconda moglie di Schulim Vogelmann). Così Daniel, dalla natura creativa e grande amante della letteratura, ha trovato la sua strada fondando La Giuntina, ebraismo a portata di libro, che, tra gli altri, pubblica Hannah Arendt, Zygmunt Bauman, Erri De Luca e Anat Gov.
A tal proposito, Ricordo anche l’italianissima NN Editore che ha portato in Italia Kent Haruf.
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