Nella sostanziale indifferenza delle diplomazie occidentali, ferme in attesa dell’ingresso in scena di Trump, e senza nessuna voglia di “sporcarsi le mani”, si è consumato il primo atto del riassetto del teatro siriano, con inevitabili ripercussioni su Medio Oriente e Golfo.
Dietro il pacchetto di misure di tregua sul terreno, deciso il 29 dicembre da alcune delle parti in lotta per il dominio in Siria, e portato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite due giorni dopo, vi è un disegno politico che, se arriverà a conclusione, restituirà un Medio Oriente ben diverso da quello sin qui conosciuto, perché ancor più squilibrato di quanto già non lo fosse prima dell’avvio del conflitto.
Il documento approvato nel pomeriggio del 31 dicembre dal Consiglio di Sicurezza sembra poter rimettere nei binari della cooperazione internazionale un accordo nato su basi di realpolitica e ambizioni di potenza di Russia, Turchia e Iran, ma è davvero presto per capire come andranno effettivamente le cose.
Se ne capirà di più nei prossimi giorni. Innanzitutto sul terreno: se riprenderanno gli scontri, vuol dire che le ragioni e i dubbi che si espongono qui di seguito, avranno trovato da subito conferma. Se la tregua sarà rispettata, come tutti auspicano visto che in ballo ci sono tante vite umane, si vedrà nella conferenza di pace di Astana, in Kazakhstan, se, come ha dichiarato la Russia all’ONU, ci sarà spazio per i paesi arabi ora esclusi e per il nuovo governo degli Stati Uniti.
Ma questo riguarda il futuro. Per ora si può ragionare solo sui dati effettivi, ad oggi.
Va detto innanzitutto che l’accordo del 29 dicembre non è un nuovo accordo Sykes-Picot, come è stato scritto da alcuni commentatori, per molte ragioni.
La prima è che la natura di quell’intesa non ha niente a che vedere con quanto è stato firmato il 29 dicembre. Qui ci si trova dinanzi a una tregua, non a un accordo per ridisegnare confini e poteri. Da quanto ha fatto trapelare l’agenzia russa Tass, sul tavolo ci sono tre documenti: “Il primo documento è stato siglato fra il governo siriano e l’opposizione armata sul cessate il fuoco in Siria, il secondo è un sistema di misure per controllare il regime della tregua mentre il terzo è la dichiarazione sulla prontezza a iniziare le trattative di pace sulla soluzione del conflitto in Siria”. Sono stati tutti sostanzialmente raccolti dal Consiglio di Sicurezza.
La seconda ragione è che, contrariamente a quanto affermano le teorie cospirazioniste, Sykes-Picot per molte ragioni (ad esempio perché era un accordo segreto e veniva firmato, maggio 1916, un secolo fa. da personaggi scarsamente rappresentativi, quando si riteneva che le vicende della Grande guerra si sarebbero concluse in ben altro modo per francesi e inglesi) fu solo uno dei tanti contributi che le potenze europee diedero allo sviluppo di confini e stati nella vastissima area allora controllata dal morente impero ottomano. I patti del 29 dicembre, se andranno a realizzazione, sono sottoscritti al massimo livello da parti direttamente in causa, e garantiti da tre stati: Turchia, Iran e Russia.
La terza ragione è che manca, nel presente accordo, la faccia della grande potenza dei nostri tempi, gli Stati Uniti. Nel 1916 la presenza del Regno Unito, dava all’accordo respiro strategico, e quella francese il segnale del coinvolgimento del vecchio continente. L’accordo attuale ha respiro regionale e interetnico-religioso. L’Iran è lì per garantire gli sciiti, la Turchia il suo rigurgito ottomano, la Russia Assad e le due basi aerea e navale che ha nel frattempo aperto in Siria. Obama, impegnato nella rappresaglia alla cyber war della Russia (ma mentre Hillary prendeva ceffoni in faccia dalla disinformacja via web, dov’erano Obama e la CIA?), si sarà a questo punto convinto di aver compiuto in Siria uno dei più marchiani errori di politica estera. E gli europei, visto che la Siria rientra nella loro sfera d’interesse geopolitico diretto, avranno finalmente la prova provata di quanto siano divenuti insignificanti nello scacchiere euro-mediterraneo.
La quarta differenza è che mentre paradossalmente l’accordo di un secolo fa, anche se in modo discutibile, prometteva di essere rispettoso della dignità araba opposta al dominio ottomano, si è oggi in presenza della più sfacciata realpolitica, disinteressata ai diritti arabi. La Russia torna a piantare le sue bandierine in territorio mediorientale, per la prima volta dal tracollo dell’URSS. Ma sono soprattutto Turchia e Iran a gongolare: il “sultano” Erdogan, vendica la sconfitta ottomana e torna protagonista del futuro di un’area di forte interesse geopolitico per le sue ambizioni. L’Iran, dopo aver giocato bene le carte sciite spaccando il fronte palestinese, entra da garante in un teatro nel quale può contare sulla minoranza alauita di Assad, la maggioranza sciita dell’Irak, gli amici hezbollah in Libano.
Che ciò significhi avvio della pacificazione in Medio Oriente e Golfo è tutto da dimostrare, e su questo punto è girato anche il dibattito del 31 pomeriggio al Consiglio di Sicurezza.
Ad aderire alla tregua con Bashar al Assad risultano sette gruppi: Faylaq Al-Sham, Ahrar Al-Sham, Jaysh Al-Islam, Suwar Agi Sham, Jaysh Al-Mujahideen, Jaysh Idlib e Jabhat Al-Shamiyah, che rappresenterebbero 60 mila armati sul terreno. Ci sono convitati di pietra che avranno certamente da dire la loro e potranno anche essere tentati di portare all’inferno chi è seduto al tavolo della tregua, come fece il Cavaliere con don Giovanni.
Arabia Saudita e Qatar, innanzitutto che sul terreno hanno alleati armati e ancora pronti a combattere. ISIS e il fronte al-Nusra, con i gruppi collegati, esclusi dalla tregua e dichiarati terroristi. E ci sono i curdi, combattenti di grande sacrificio e successo, sacrificati dalla realpolitica sull’altare della dominanza turca nei loro confronti: non sono certo pronti a consegnare le armi come sembra gli si chieda salvo minacciarli di sterminio in quanto terroristi.
Gli arabi sono esclusi dall’accordo e in modo, come si è detto, molto più evidente rispetto al Sykes-Picot. Sentono che il loro futuro è deciso dai nazional-ortodossi moscoviti alleati del detestato Bashar, da un Erdogan riedizione ottomana, e dagli ayatollah del ritorno sciita-safavide della Persia immortale.
Altri limiti fanno dubitare della solidità dell’accordo garantito dalla trimurti irano-russo-turca, il cui unico elemento di omogeneità sembra risiedere nelle ambizioni di potenza e nella spietata capacità di repressione di minoranze e opposizioni interne.
Sono limiti che riguardano la natura del mondo arabo e islamico, minandone sin dagli albori le capacità di continuità e stabilità. Non vanno sottovalutati.
L’islam si propose alla storia come armata militante religiosa e culturale di conquista. Ma in sé aveva un virus che ne avrebbe ripetutamente ucciso le velleità di imporsi: le divisioni interne. La spaccatura verticale tra scia e sunna, iniziata su questioni dinastiche, subito dopo la morte del profeta Muhammad, e la miriade di rivendicazioni ricollegabili agli effetti della poligamia con l’affastellarsi, tra i vari letti di procreazione, di diritti dinastici.
Tribù unite nell’adorazione dello stesso dio e nel culto del medesimo profeta, ma divise nelle rispettiva fedeltà a principi e principini; tribalismo e assenza del grande capo unificatore sia sul piano religioso che civile. Da qui la causa e insieme l’effetto di diritti acquisiti che si trasmettono tra fratelli per anzianità, non per discendenza di primogenitura come nel diritto romano e successori. Il tribalismo è diffuso soprattutto nei territori della sunna, come si vede dalla lunga vita che spetta all’impero persiano, sciita. Peserà nella vicenda siriana come ha sempre pesato nella storia dei popoli arabi.
Nella ragnatela che Mosca sta tessendo, assenti gli Stati Uniti e l’Europa, non si dà risposta né al tribalismo né al confronto tra scia e sunna. Le ragioni che hanno portato all’immensa strage della guerra siriana non trovano risposta. E se non si allarga il tavolo, quelle ragioni torneranno a rivendicare soddisfazione. Su questo, al Consiglio di Sicurezza, sembra ci sia stata resipiscenza rispetto all’accordo tra le parti del 29 dicembre.
Tanto più che Putin, contrariamente a quanto aveva fatto capire, non imporrà a Bashar l’esilio dorato che spetta a tutti i dittatori che non finiscono ammazzati dai loro popoli. Se Bashar resterà al suo posto, sarà davvero dura per il processo di pacificazione.
E ancora: quanto durerà la luna di miele fra Donald Trump e Vladimir Putin? Se l’America non è impazzita, presto o tardi chiederà conto al suo presidente in entrata, dei comportamenti di quello che sembra proporsi come il “grande fratello” slavo della democrazia nata e corroborata dagli Alexander Hamilton, Abraham Lincoln, Franklin Delano Roosevelt, Dwight Eisenhower. E quanto resisterà una Russia minata dai prezzi bassi delle materie prime e del petrolio e dai costi folli del riarmo e delle occupazioni territoriali del suo presidente? E quanto resisterà Erdogan, rafforzato recentemente da un colpo di stato da burletta? Si può davvero permettere di realizzare la repressione sanguinosa dei curdi che ha in mente, con un paese profondamente diviso, dove la parte più ricca e produttiva, quella europea, non condivide il modello islamico e autoritario che intende imporre al paese?
Last but not least, Donald Trump non ha detto in campagna elettorale, che rinegozierà il trattato firmato da Obama con l’Iran, mettendo al suo posto la teocrazia di Teheran e, spegnendone le velleità di potenza regionale?