Mai come in questo momento si stanno accendendo polemiche e idee che spesso sfociano nel sentimento razzista, o almeno possono dare questa sensazione. La frequenza e violenza di attacchi kamikaze o simili ha l’effetto di risvegliare in molti di noi degli istinti di intolleranza e altrettanta violenza nei confronti di persone e popoli che per molti anni sono stati in realtà trascurati, se non addirittura maltrattati dai cosiddetti paesi “evoluti” senza assolutamente tenere in considerazione le conseguenze di certi atteggiamenti o politiche.
Io ricordo ancora vivamente una mia esperienza personale a Parigi, non più di 6 anni fa. Ero lì per lavoro, e rientrando in treno verso Parigi dal centro fiere dove si svolgeva una importante manifestazione, mi trovai costretto a scendere dal treno in una di quelle piccole stazioni nella zona dello stadio St. Denis dove avrei dovuto prendere un treno successivo. Una volta sulla banchina, appena sceso dal treno, fui subito assalito da una sensazione che mai avevo provato prima. Una sensazione di panico e di paura, ma anche di totale sgomento. La stazione era fatiscente, buttando lo sguardo oltre i binari si vedeva un quartiere completamente in abbandono, con case e strade in condizioni impensabili se si pensa che ero a pochi chilometri dalla Tour Eiffel. Intorno a me si parlavano solo lingue sconosciute, e non riuscivo a trovare nemmeno un “bianco” come me pur guardando in tutte le direzioni. E’ come se fossi sbarcato in un paese del Medio Oriente a soli pochi minuti di treno dal principale aeroporto francese. Non successe nulla, nessuno mi diede fastidio, nonostante fossi evidentemente un “alieno” in quel posto, vestito in giacca e cravatta e con una borsa di lavoro in pelle che magari poteva destare attenzione. Non successe nulla, eppure questo evento mi impressionò, tanto è vero che ne ho parlato spesso con famiglia ed amici al mio rientro in USA e anche ogni volta che ho letto o visto attentati o attacchi suicidi in città o aeroporti Europei.
Mi sono anche informato successivamente con degli amici francesi che mi hanno confermato che in queste cosiddette “banlieue” nei dintorni di Parigi spesso non entra nemmeno la polizia. Sono oramai dei veri e propri “ghetti” dove gli immigrati sono in pratica abbandonati a loro stessi. Senza servizi, assistenza, sicurezza alcuna. E soprattutto senza nessuna possibilità di integrazione in una società diversa dalla loro. Ed è in questo contesto poi che si “radicalizzano” e diventano a loro volta strumenti di morte verso una società che in realtà non li ha mai accolti veramente, se non sulla carta come numeri di una statistica.
Alla luce anche degli ultimi fatti in Europa, con l’uccisione del terrorista di Berlino che poi si era venuto a rifugiare in Italia, penso che sia giusto una volta per tutte fare delle considerazioni senza che questo sia considerato come un atteggiamento razzista o di rifiuto del diritto di accoglienza. E’ chiaro che il sistema Schengen, così come è stato concepito, oramai è obsoleto e presenta un’arma a favore di chi arriva con intenti illegittimi in Europa. Anche perché se andiamo a vedere la gran parte degli attentati degli ultimi anni sono avvenuti per mano di residenti appena arrivati o comunque ben radicati in uno o più paesi dell’Unione Europea. La facilità di movimento non fa altro che facilitare il tutto.
Una qualche forma di controllo agli spostamenti all’Interno dell’Unione è oramai necessaria, a maggior ragione perché purtroppo i veri controlli che andrebbero fatti in ingresso dai paesi di frontiera non avvengono, per mancanza di personale, soldi, tecnologia e, forse, anche volontà.
Faccio notare che i tre paesi più appetibili per chi vuole fuggire da zone di guerra o povere sono USA, Canada, Australia. In tutti questi paesi esiste un sistema di controllo dell’immigrazione molto rigido, certo agevolato dalla posizione geografica e dalle dimensioni, ma che comunque permette a migliaia di rifugiati e immigrati di arrivare, lavorare, farsi una famiglia e in qualche modo integrarsi (non certo senza problematiche o situazioni simili alle “banlieue” francesi, ma in maniera assolutamente minima rispetto a quello che succede in Europa). E questo perché, vi chiederete? Per me la risposta è ovvia. In questi paesi esiste una minima (negli USA) o massima (in Australia) razionalizzazione dei flussi migratori. Si sa quanti farne arrivare, dove mandarli, a fare cosa, ecc. Gli si da’ una speranza di potersi integrare e diventare parte del tessuto sociale di quel paese. Il che ovviamente non è una garanzia di successo al 100%, ma funziona nella stragrande maggioranza dei casi.
A mio modesto parere, l’Europa ha fatto un pessimo lavoro in questo senso. Sento spesso dichiarazioni dei vari paesi che si accusano a vicenda su cose marginali, tipo il numero di immigrati da prendere in carico in un determinato anno. Ma non sento mai dire come si vogliono impiegare migliaia di persone che arrivano senza istruzione (spesso), soldi, conoscenza anche basilare delle civiltà occidentali. E non voglio nemmeno aggiungere la pratica bestiale di chi ci lucra sull’immigrazione, delle centinaia di “ONLUS” che compaiono miracolosamente ogni anno con fini nobili e che poi tendono solo a speculare sulla pelle dei più deboli.
L’Europa, se fosse veramente una comunità di popoli, se fosse anche onesta con se stessa e con il mondo, dovrebbe dire che se non riesce a fare quanto esposto sopra, allora le frontiere le dovrebbe chiudere e non far entrare nessuno. Almeno fino a quando non si siano sistemate le tensioni interne con le comunità ghettizzate e che continueranno a sentirsi corpi estranei in una civiltà che all’apparenza le accoglie e accetta, ma in realtà non ha mai fatto nulla per farle veramente diventare parte del proprio tessuto sociale.
Spero sentitamente che questo non sia necessario, e che invece chi ha potere e responsabilità politica in Europa intraprenda la prima strada. Quella di formare subito un tavolo di lavoro tra tutti i paesi Europei per affrontare seriamente il problema. Per fare in modo che tutti si sentano protetti: quelli che arrivano e anche quelli che in Europa ci vivono già.
Marco Petrini, romano di nascita ma per molti anni residente in Umbria. Negli USA dal 1981, prima come studente al Boston College, e poi di nuovo dal 2000 come Presidente della Monini North America del Gruppo Monini di Spoleto.
Discussion about this post