Un’altra volta, un’altra mattanza. Questa volta è Berlino a piangere i suoi morti. Questa volta è la Germania a svegliarsi con l’incubo terroristico dentro casa. Per l’ennesima volta nel corso di un 2016 costellato di sangue e massacri in tutta Europa, in tutto il mondo.
La modalità di attacco ricorda il dramma dello scorso Luglio compiuto a Nizza da un franco-tunisino, quella volta le vittime furono 85. Ma verosimilmente ricalca in pieno il modo di attaccare e ammazzare che da tanti anni hanno adottato i terroristi di Hamas su suolo israeliano. Sicuramente segue le linee guida di Al Zawahiri, che non più tardi di un anno fa, rivolgendosi proprio a coloro che troppo spesso impropriamente si definiscono rifugiati, li esortava a compiere attacchi su vasta scala in Europa e Nord America. Non importa come, l’importante è spargere sangue in nome di un Califfato che a tutti costi vogliono ricreare. Non contano i mezzi, perché tutto fa brodo nell’ottica del terrorismo fai da te. Ed ecco che il terrore ha abbandonato la strategia della massacro stile Torri Gemelle, adottandone una ben più sottile ma ugualmente micidiale. La strategia degli attacchi continui e trasversali, con un basso numero di vittime, compiuti con un mitra, con un coltello, con un camion che piomba sulla folla. Niente più edifici in fiamme che crollano e portano via con se migliaia di vite. Ma una miriade di mini stragi in cui a morire insieme a qualche decina di cittadini occidentali, è in primis la serenità che l’Occidente si era ingenuamente convinta di aver ottenuto, in anni di finta pace e tranquillità apparente.
Certo, i segnali per un attacco su vasta scala in Germania c’erano tutti da tempo. Proprio un mese fa l’intelligence tedesca aveva confermato una minaccia concreta di attacco contro i mercatini di Natale, inserendo proprio Berlino tra le città più a rischio. Ed ecco che la domanda sorge spontanea: se tutti sapevano della minaccia, perché non si è riusciti a prevenire l’attentato?
A questo punto è bene fare una breve ottica sulle condizioni, gravissime, in cui versa la sicurezza del Vecchio Continente. Innanzitutto l’Europa, un’unione di Stati che a torto molti considerano come un’unica entità, continua a mantenere tutte le peculiarità difensive che l’hanno caratterizzata nel novecento. Ovvero ogni Paese ha una propria intelligence, proprie forze armate e un proprio codice penale. Se tutto ciò appare ovvio, in un’epoca liquida come quella odierna, con un terrorismo sempre più sfuggevole e di difficile identificazione, quanto di cui sopra si trasforma in un perfetto assist per chiunque vuole compiere attentati. La totale mancanza di sinergia tra le varie intelligence europee, permette ad alcuni fondamentalisti di essere identificati come tali in alcuni Paesi (con conseguenti misure cautelative) e al contempo di poter operare indisturbati in altri. L’attentato di Marzo all’aeroporto di Bruxelles ne è un degno esempio, con tre persone ricercate in Turchia, note alle autorità italiane e tedesche, ma sostanzialmente sconosciute in Belgio, dove sono poi riusciti a compiere una strage senza troppi problemi.
Il problema delle innumerevoli forze armate nazionali su scala europea genera, de facto, un’incapacità cronica di combattere non solo il terrorismo, ma anche il crimine più subdolo. E con buona pace dell’Europol, un organismo che purtroppo non è mai decollato e non ha mai funzionato per le sue reali capacità, l’Europa continua ad essere una costellazione di forze di sicurezza che alla collaborazione effettiva antepongono burocrazia, protocolli machiavellici da rispettare e perfino un pizzico di reciproca insofferenza. Ovviamente l’Italia in tutto ciò fa la parte del leone, con ben cinque forze armate (unico caso al mondo) che stentano a collaborare perfino sul proprio territorio nazionale, figurarsi con le forze europee.
Quanto alla questione legislativa, qui la situazione si fa perfino tragicomica. Può sembrare strano, ma in Europa non ancora si riesce a dare una definizione chiara ed esaustiva su cosa realmente è il fenomeno terroristico. Nella migliore delle ipotesi, ogni codice penale nazionale fornisce una propria versione di cosa è giudicabile come attività terroristica. Nella peggiore delle ipotesi, quel che può essere considerato un reato in Francia, talvolta non è in Italia e viceversa. Questa follia legislativa, crea un tilt immediato nella macchina della sicurezza europea. Si può essere criminali in un Paese, rifugiati in un altro, rispettabili cittadini in un altro ancora.
Questo quadro poco confortante fornisce un’idea immediata, di quanto sia difficile, se non impossibile, fare una seria attività di prevenzione e contrasto al fenomeno terroristico su scala continentale. Se consideriamo poi tre fenomeni importanti, come il continuo e ormai insostenibile flusso migratorio (che, inutile negarlo, insieme ai veri rifugiati inonda le nostre città di persone con un background criminale spesso difficile da identificare); il Patto di Schengen, che certamente facilita la libera circolazione degli uomini e delle merci in tutta Europa, ma di conseguenza rende i confini facilmente valicabili anche ai terroristi; e la proliferazione dei cosiddetti “foreign fighters”, giovani occidentali e seconde generazioni autoradicalizzate sui social media, che imbracciano un fucile e dichiarano guerra ai valori occidentali, ecco che c’è poco da star sereni.
Se la locomotiva d’Europa è stata colpita al suo cuore nonostante le innumerevoli avvisaglie, la colpa di certo non è soltanto dell’intelligence tedesca o della polizia di Berlino che non ha militarizzato i mercatini di Natale. Hanno delle evidenti responsabilità, questo è ovvio, ma non sono gli unici su cui puntare il dito.
Il problema è ben più ampio e complesso. Il terrorismo di matrice jihadista è un prodotto tipico dell’era postmoderna. È un fenomeno liquido, sfuggevole, capace di sfruttare ogni falla del nostro sistema sociale e come tale va affrontato.
Senza una politica estera e di difesa comune vera, reale, effettiva ed operativa, l’Europa continuerà a soccombere dinanzi ai jihadisti che vedono in Lady PESC, l’italiana Federica Mogherini, il rappresentate di un qualcosa che non esiste. Senza una politica migratoria concreta e ragionevole, basata sul buon senso e non sull’ipocrisia, andrà avanti un’invasione quotidiana composta non solo da persone realmente disperate e in fuga dalle guerre, ma nell’80% dei casi da migranti economici (dati confermati dal commissario UE Dimitris Avramopoulos) tra i quali non è raro trovare fondamentalisti in attesa di attaccarci, come testimoniano gli innumerevoli arresti compiuti negli ultimi mesi all’interno dei centri d’accoglienza di tutta Europa. Senza una legislazione univoca almeno in materia di terrorismo su tutto il continente, la jihad continuerà ad avere vita facile nello sfuggire alle autorità giudiziarie. Senza un’Europa vera ed unita non solo da una moneta, ma nei fatti e nei valori, la guerra al terrore continuerà ad essere un mero esercizio di buona volontà piuttosto che una garanzia per il futuro della nostra civiltà.
Stefano De Angelis (Chieti, 1986), è docente di Sociologia dei Fenomeni Terroristici presso la Questura di Chieti, Senior Research Fellow all’Istituto Mediterraneo Studi Internazionali, consulente governativo e autore di vari libri sul terrorismo islamista. Il suo ultimo saggio Le parole della Jihad è disponibile su Amazon.
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