Obiettivamente, nessuno pensava davvero che Renzi avrebbe potuto ribaltare il risultato di un referendum che lo vedeva contro tutte le altri parti politiche, e gran parte del suo stesso partito. Ma visto che in comunicazione sono state investite molte risorse ci si può chiedere oggi se la campagna abbia qualche responsabilità nella sconfitta. Tutta l’attività di comunicazione sembra abbia superato i 4 milioni di costi (c’è chi arriva a ipotizzarne fino a 10, ma la cifra finale è quasi impossibile da determinare per le troppe variabili). Di questi, circa 400 mila nelle tasche del guru americano Jim Messina, già a fianco di Obama nel 2012 e di Cameron due anni dopo. Ma non è un buon anno per lui, visto che ha dato anche una mano alla Clinton e ha “benedetto” la campagna contro la Brexit, in entrambi i casi senza successo. Non è nemmeno la prima volta che le forze politiche italiane si affidano a questi consulenti di oltre oceano, quasi sempre con risultati disastrosi: Rutelli, Monti e Berlusconi ne sanno qualcosa.
Ma vediamo nel dettaglio cosa certamente non è andato bene nella campagna del fronte dl Sì.
Partiamo dal dato più evidente: circa il 70% degli under 30 ha votato No alla riforma. La vera grave barriera tra il Premier e la sua causa. E anche la vera grande preoccupazione per tutta la sinistra, genericamente detta. I motivi come sappiamo sono tanti, da ricercare certamente nella mancanza occupazionale e soprattutto nella mancanza di prospettive a lungo termine delle fasce più giovani. Ma è certo che in comunicazione non si è parlata mai la lingua dei venti-trentenni: primo vero grande errore dello staff di Renzi. In certe stanze si pensa ancora che basti mettere un ragazzo in uno spot per parlare a tutta la categoria, e probabilmente la stessa cosa deve essere accaduta nel suo quartier generale. Poca conoscenza del target, poca voglia di approfondire, poca capacità di calarsi nelle loro teste e intuire le loro possibili reazioni.
E non è solo una questione di lingua, ma anche di media utilizzati. I social ad esempio sono stati usati semplicemente per rimbalzare e amplificare i contenuti della campagna ATL, che di per sé adottava già un linguaggio maturo, conservativo e per niente empatico. Buono per rassicurare chi era già convinto delle ragioni del SI, ma inadatta a portare a bordo qualcuno di nuovo. Buono per spiegare, non sufficiente per creare adesione emotiva.
Che è esattamente la differenza tra una campagna fiacca e una di successo. Solitamente questo accade quando non si osa, quando si scommette con il braccino corto, e sarebbe utile su questo rivedere la bella storia raccontata (e romanzata) nel film “No, i giorni dell’Arcobaleno” sulla campagna referendaria totalmente folle che contribuì a spodestare Pinochet.
Sul fronte del No si gridava, spesso in CAPS LOCK con punti esclamativi: non un bellissimo comportamento di comunicazione da subire o da vedere, ma certamente qualcosa di cui tenere conto per il futuro. Meno educazione e meno nonnine rassicuranti potrebbero essere già un suggerimento esecuzionale da tenere presente, o il consiglio da dare al prossimo guru americano che verrà qui in vacanza.
Del resto ciò che sta accadendo a livello sociale in tutto il mondo, come già raccontato su questa testata, impone di cambiare del tutto i toni di questo tipo di messaggi istituzionali. Serve essere più diretti, meno educati, meno ruffiani. Abbandonare gli endorsment illustri, spesso controproducenti, come già si è visto in America. In pochi hanno finito per credere fino in fondo alle promesse del Sì, anche perché si è usato un linguaggio vecchio, troppe volte usato dalla politica rottamata.
Poi c’è l’eccessiva sovraesposizione del premier, anche questa parte essenziale della comunicazione. Negli ultimi giorni Matteo Renzi sbucava ovunque nel teleschermo, e questo ha portato effetti più negativi che positivi: succede quando ci sono problemi di empatia o di gestione della propria immagine. Ai suoi detrattori Renzi appare spesso presuntuoso, distante, un po’ sbruffone. Negatività che vengono amplificate da una esposizione continua: forse sarebbe stato sufficiente comparire di meno.
Infine l’invadenza di opuscoli e SMS a molti ha ricordato i peggiori anni di Berlusconi, e non si può escludere che quella larga fetta di indecisi che poi ha optato per il No lo abbia fatto perché indispettita da tanta pressione.
In conclusione, ancora una volta sembra di poter dire che il governo Renzi non ha mai creduto fino in fondo alla forza di una buona comunicazione politica, trattata come spesso è accaduto nel suo governo con un po’ di superficialità, applicando formule invece di provare a parlare al cuore, o se non altro all’intelligenza delle persone.
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