In un libro che sta uscendo a cura della Fondazione Nenni, il giovane ricercatore Jakob Schwörer, basandosi su un formidabile impianto bibliografico e documentale, propone l’analisi storica e sociologica dei cosiddetti populismi, guardando in particolare al Movimento 5 stelle (M5S), e ad Alternative per la Germania (AfD). Nell’introduzione, l’autore precisa a quali partiti e raggruppamenti, oltre ai due citati, vada la sua attenzione: Front National in Francia, Freiheitliche Partei (FpŐ) in Austria, Forza Italia e Lega Nord in Italia. Cesare Salvi, nella prefazione, aggiunge all’elenco Podemos spagnolo, Syriza greco, Ukip britannico, e la messe di partiti e partitini neo-nati e spesso neo-autoritari di nord Europa, est Europa, sino ad includere nel mazzo Trump&Sanders e l’inglese Jeremy Bernard Corbyn, con la battuta: “non c’è che l’imbarazzo della scelta”. E però, poi si esagera nel non distinguere tra i diversi soggetti, rischiando di fare un solo fascio di tanta erba.
Perché la prima difficoltà di chiunque voglia confrontarsi con il fenomeno populista sta nel definirlo: senza ben definire un qualunque oggetto di analisi, resta impossibile ben ragionare su di esso. La definizione offerta da Jakob Schwörer non soddisfa pienamente, perché tende a qualificare il fenomeno populista attraverso aggettivazioni (“nuovo”, “diverso”, “opposto”, etc.), che non rispondono alle domande che osservatori e cittadini si pongono. Potranno questi movimenti risolvere i problemi che con evidenza le stanche democrazie mostrano? Si tratta di focarelli fatui o dureranno? Sono davvero “diversi” come affermano, o sono la straconsueta pappa partitica, resa demagogicamente più gustosa con qualche ingrediente “esotico”?
Nella parte descrittiva, in realtà, l’autore narra con efficacia i due casi di specie. E’ quell’accurata analisi che consente di dedurre cosa il populismo abbia preteso di essere e cosa realmente sia stato e sia. Riprendendo la definizione di Cas Mudde, Schwörer lo definisce “thin centered” e correttamente argomenta che il basso spessore ideologico, sorta di inafferrabile sottigliezza, consenta le semplificazioni delle proposte populiste nelle quali il “popolo” può riconoscersi. Da lì consenso e voti.
La teoria del “thin centered” spiazza la tradizionale bipartizione destra/sinistra, sostituendo la dicotomia popolo (sano, onesto, laborioso, … e sfruttato) élite (malsana, disonesta, nullafacente, … e sfruttatrice). La vulgata di detta “semplificazione” in termini economici sta nella contrapposizione, strombazzata a gran voce in ogni dove nel presente decennio, tra lavoro/industria e speculazione/finanza. In termini politici, la semplificazione dice che il ceto politico, corrotto e corruttore, votato formalmente dal popolo, si lascia nella pratica manipolare e asservire dai grandi interessi multinazionali e finanziari divenendone braccio esecutivo, emarginando la volontà popolare e i bisogni che manifesta. Detto questo, certo che esiste un populismo di destra e di sinistra: Jeremy Corbin guida il partito laburista britannico e fa fuoco soprattutto contro banche finanza e tecnocrazia sovranazionale, Marine Le Pen strilla contro certi immigrati e credenti nell’islam temendone la capacità di contaminazione sulla purezza del popolo francese.
E in effetti Schwörer distingue tre populismi. Il primo è di tipo ”inclusivo”, perché tende a mettere il popolo “sovrano” al centro della politica, con quanti più meccanismi di democrazia diretta, tra gli altri quello fornito dall’Internet. Il secondo, definito “di destra”, discrimina all’interno del “popolo” certi gruppi religiosi e/o etnici, che ne vengono estratti a fine di emarginazione. Il terzo, “di sinistra”, guarda al “popolo” soprattutto come categoria sociale ed economica che soffre le oligarchie economiche e finanziarie capitalistiche, nonché le élite che si mettono a loro disposizione.

Su questo quadro di riferimento, alcune puntualizzazioni. La prima riguarda la nascita del cosiddetto populismo in Europa e negli Stati Uniti. Non vi è dubbio che essa si sia prodotta grazie al crescente e inarrestabile deterioramento delle élite politiche ed economiche avvenuto negli anni della globalizzazione. Non è il caso di riprendere ragionamenti e dati più volte esposti in questa rubrica. Quelle élite, e il “palazzo” che esse governano o influenzano, stanno peraltro compiendo un ulteriore errore, non sapendo come rapportarsi all’assedio del “populismo” che monta da strade e piazze. Lo attaccano all’insegna di un disprezzo che somiglia ad una sorta di bon ton istituzionale, ma che appare ai più il birignao salottiero ed endogamico dei privilegiati che tali si ritengono per destino divino. E’ autolesionismo che si manifesta, ad esempio, nell’uso improprio che viene fatto del nome “populista”.
Nessuno dei partiti e movimenti su elencati si autodefinisce “populista” o ha il termine popolo nel proprio nome e acronimo. Sono “gli altri”, i “governativi”, a gettar loro in faccia un termine nobilissimo, fondamento di ogni moderna democrazia, in modo offensivo e dispregiativo. L’operazione di comunicazione diventa così arma a doppio taglio, se non altro perché conferma la pretesa élitaria della politica tradizionale, e il suo non cale se non disprezzo di ciò che è “popolare”. Certo che quei partiti e movimenti sono anti-establishment, ma in senso socio-economico e politico, non in senso istituzionale. Quei partiti e movimenti albergano nelle istituzioni, anche quando le contestano: vi si fanno eleggere, vi esercitano i loro poteri in modo costituzionale, anche quando ne sono con evidenza potenziali eversori. Chiamare populisti dei politici può essere insomma controproducente, perché può portare il popolo (stavolta senza virgolette) a identificarsi con chi dice di volergli dare voce diretta, di inserirlo nel proscenio della politica e delle decisioni.
E’ un errore, per capirsi, simile a quello che si fece con il Fronte dell’Uomo qualunque, il movimento politico di centro liberale e anticomunista che Guglielmo Giannini sfornò alla fine della Seconda guerra mondiale. Cos’altro era l’allora uomo della strada, non borghese e non classe, ma ceto industrioso, produttore e riproduttore, se non uomo qualunque che vuole per sé le cose che tutti i suoi equivalenti certamente vogliono? Si pretese che qualunquista assumesse significato negativo, e così fu, grazie alla forte presa che allora avevano le grandi ideologie. Difficilmente potrà accadere lo stesso con “populismo”, in tempi di acerrima antipolitica quali sono quelli che viviamo. Attenti, insomma, al rinculo, come scrive Angelo Panebianco in prima del Corsera il 27 maggio: “Le battaglie politiche sono condotte usando le parole e se le parole di qualcuno sono sbagliate la sua sconfitta è sicura”. Ai Beppe Grillo e alle Marine Le Pen si rischia di fare un favore a chiamarli populisti.
Come chiamarli allora? Se si scorrono i propositi e si ascoltano i discorsi dei leader dei partiti indicati come “populisti”, si scopre che si tratta di movimenti basati innanzitutto su nazionalismo e provincialismo. E che sono organizzati al loro interno, in modo autoritario e parafascista, nel culto del capo e dell’ “un solo uomo al comando” (se è una donna non fa differenza, di questi tempi). Si guardi Donald Trump: è autoritario, aggressivo e sciovinista. Grillo vive di espulsioni permanenti decise da lui sub specie del voto della rete; non ha bisogno di organi né di assemblee. Li adotterà, eventualmente, quando sarà certo di non riceverne contestazione alcuna. Il cosiddetto populismo ha bisogno di un popolo gregario e al tempo stesso dotato di spirito identitario, da muovere contro obiettivi massimalisti scelti, volta per volta, dal capo, in forte sintonia con i gregari.
La definizione, tra le tante possibili, potrebbe quindi affermare di essi che sono “movimenti fondati sul carisma di leader indiscutibili, che utilizzano la diffusa opinione antisistema degli elettorati, per farli aderire a modelli di società chiuse e autoritarie”.
Come si è detto, ciò si rende possibile grazie al processo di semplificazione che il leader opera sulla realtà complessa che spaventa l’elettorato. A restare spaventata di fronte alla realtà e ad identificarsi di conseguenza nelle risposte semplici ai problemi complessi, non è solo la parte culturalmente meno preparata della popolazione, ma anche il vasto ceto di tecnici e professionisti, in genere digiuni di cultura politica ed economica, la sola in grado di dare contezza delle complessità dell’era contemporanea. E’ semplicemente falso affermare che non occorrano competenze, salvo l’onestà, per fare politica: la politica è anche un’arte e come tutte le arti la si esercita bene solo se si hanno vocazione e capacità innate. Così è falso che un giovane sia per definizione più innovativo di un anziano (allora sarebbe vero anche il contrario, cioè che un giovane non sia in grado di dare risposte alle questioni legate alla tradizione), o che una donna tuteli i diritti del suo genere sempre e comunque meglio di quanto possa farlo un uomo (allora sarebbe vero anche il contrario, ovvero che una donna sarebbe incapace di prendere buone decisioni riguardanti gli uomini), e che uno straniero costituisca minaccia per la salute della schiatta nazionale (infatti mafia, ‘ndrangheta, brigantaggio sardo, Mafia capitale, corone unite e disunite ci arrivano da spiagge lontane, vero?), e che l’islam anche quello moderato ci voglia tutti morti, e così via semplificando.
L’epoca contemporanea è libera e ricca come mai prima nella storia umana conosciuta. Lo dobbiamo a tre correnti di pensiero che ci hanno dato l’Europa e l’America che conosciamo: liberalismo, socialismo democratico, popolarismo ispirato alla dottrina sociale della chiesa. La politica e la democrazia sono in crisi perché i ceti di governo si sono allontanati da quei presupposti e si sono lasciati corrompere. E’ legittimo il dubbio che chi si chiama fuori da quei filoni di pensiero e intende ignorare quella storia, possa essere in grado di riformare nel modo giusto la politica e l’economia. Il loro esercizio di semplificazione continua che arriva sino a mascherare nel vaffa e nello sberleffo l’incapacità di dare soluzioni alla complessità, il loro costume autoritario e discriminatorio, quel dubbio lo alimenta e fortifica.
Non si sfugge alla complessità, come mostra il fugone che il malcapitato Berlusconi (al quale vanno i migliori auguri per almeno altri 40 anni di ottima salute), con il compare Tremonti (il gatto e la volpe li chiamavano nei ministeri economici romani) dovette imboccare quando, nonostante i suoi quotidiani “quanto mi diverto!”, la Commissione europea intimò l’altolà. Trump si troverebbe in una situazione del genere se davvero realizzasse quello che strombazza, a cominciare dall’alzare tariffe doganali e rinegoziare i trattati commerciali sui quali il suo paese si è costruito 70 anni di benessere e crescita praticamente ininterrotti.
Non si sfugge alla menzogna: predicare l’antipolitica e, subito dopo essere eletti, infilarsi ben dentro la politica, stipendi e privilegi inclusi, è mentire. Essere sempre e comunque contro il centro politico, rivendicando i diritti della periferia, e traslocare alla prima occasione ai piani alti della politica centrale, è mentire all’elettorato. Sputare sempre e comunque in faccia a globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, godendone ogni momento i vantaggi, dalla tecnologia ai viaggi “aperti”, agli investimenti a più alto rendimento ovunque possibile, è esercizio della menzogna. Matematica ed economia vanno a braccetto, e fuggono come peste la demagogia.
Né si sfugge alla dimensione del rischio: lo capiranno molti elettori americani quando, pur deliziati e fascinati dal personaggio Donald Trump, si chiederanno, al momento del voto di novembre, se potranno continuare a dormire tranquilli da gennaio, sapendo che quel signore azzimato e bizzarro che vorrebbero eleggere, avrà sempre a portata di mano la valigetta nucleare, col bottone del doomsday a disposizione.
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